domenica 29 gennaio 2012

La mia adorata Nikon


Negli ultimi dieci anni abbiamo tutti assistito allo scontro tra Canon e Nikon. Io sono rimasto a guardare, e non ho comprato nulla, ho continuato a scattare diapositive con una Canon EOS 5000 analogica risalente al 1999, suscitando a volte ilarità e commenti divertiti. Conosco tante persone che hanno acquistato corpi macchina che adesso giacciono ripudiati in qualche cassetto, poiché la tecnologia era in continua evoluzione, e i 10 Megapixel di sei anni fa sembrano oggi uno scherzo. Adesso è il momento di comprare, perché la corsa alla risoluzione si sta arrestando e perché la tecnologia inizia ad essere matura. A questo punto sono entrato in campo e ho scelto la Nikon D7000 non per i Megapixel, che comunque sono 16 e quindi più che sufficienti, ma per la profondità di colore di 14 bit, la stessa delle reflex pieno formato come la D700. I pregi di questa macchina sono innumerevoli, non ultimo l’autofocus a 39 punti, la ripresa di filmati, il ritocco in-camera e le batterie di lunga durata – non bisogna dimenticare che anche su queste ultime sono stati fatti enormi passi avanti. In altre parole: aspettare a non precipitarsi a comprare è stata una scelta vincente.
Ho avuto modo di vedere una stampa 30 x 70 di una mia fotografia, e sono rimasto sconvolto dal dettaglio e dalla resa cromatica – francamente credo che con la D7000 potrò andare avanti a fotografare per i prossimi vent’anni. L'ho comprata ad aprile del 2011 da un negozio online di Bergamo, in kit con lo zoom 16-85 mm. Poiché mi fido dei bergamaschi e della loro precisione, non ho esitato a inoltrare il corposo bonifico, e la fiducia è stata ampiamente ripagata – imballaggio e macchina perfetti, spedizione rapida.
Non mi sono saziato e mi sono procurato, sempre online, altri obiettivi. Il denso sensore della D7000 dà il meglio con lenti fisse ad alta luminosità, e pertanto ho acquistato: il 50 mm f/1.8 che possiede uno sfocato eccezionale, morbido ed elegante, e il 35 mm f/2 che è forse una delle lenti più nitide che la Nikon abbia prodotto; poi è stata la volta del supergrandangolare Sigma 8-16 mm, che è in grado di generare stupefacenti linee di fuga nella fotografia paesaggistica, e del 70-300 mm f/4.5-5.6 Nikon, che sfrutto nella fotografia di animali e che regala sorprendenti immagini, se usato con accortezza per evitare il micromosso. Ultimamente ho promosso una colletta tra i colleghi per l'acquisto del 500 mm fisso Nikon: solo 8000 Euro circa: loro me lo comprano e io gli regalo le foto, ma quest'iniziativa non ha riscontrato molto successo. La D7000 fornisce foto spettacolari  e di basso rumore, con una resa cromatica sui verdi e sul blu veramente splendida. Le uniche foto davvero superiori credo siano solo quelle prodotte dalla Canon 1DS Mark III, ma qui si parla di una reflex full format il cui solo corpo senza obiettivi costa 5800 Euro. Chi andrebbe in giro a cuor leggero per Palermo o per Varsavia con in mano una macchina così costosa ?
Lo sfocato morbido e professionale del Nikon 50mm f/1.8 D usato a tutta apertura.
Io le foto più importanti, tipo quelle scattate nel corso di escursioni, le acquisisco in formato Raw, poi le processo con due potenti software, infine le salvo in formato TIFF non compresso a 16 bit. Una cosa fondamentale che ho capito della fotografia digitale è che non basta scaricare le foto e guardarsele - occorre perdere tempo, parecchio tempo, a casa a ritoccare le immagini; la cosiddetta postproduzione consente di fare operazioni impensabili, e tirare fuori il meglio da ogni fotografia è diventato il mio imperativo assoluto. Le mie "opere" me le guardo una marea di volte – adoro la fotografia e voglio vivere il resto della vita in mezzo alle immagini, al bello che esse trasmettono. Forse di tutto questo alla fine non resterà niente, ma chi se ne importa ? Per adesso io la mia Nikon, anzi “la mia bambina” abbiamo un sacco di lavoro da fare – e siamo appena agli inizi.

Ho fotografato per ore a temperature sottozero senza avere mai nessun problema con le batterie agli ioni di Litio di ultima generazione.


sabato 28 gennaio 2012

Ispra e i suoi scienziati

Giugno 1998. Pomeriggio fotografico al Lago Maggiore nei pressi di Ispra.
Rilievi di inquinanti atmosferici NOx per conto del Centro di Ricerca
Rivedere dei film che ci ricordano un periodo, si spera piacevole, della vita, è sempre una bella sensazione. Io ho rivisto Local Hero (B.Forsyth, GB 1983), che mi ha ricordato una delle prime sere in cui mi trovavo al Centro Europeo di Ricerca Euratom di Ispra, adagiato nei pressi del Lago Maggiore, in provincia di Varese. Il mio relatore mi aveva spedito lì dalla turbolenta Catania allo scopo di svolgere la tesi di laurea su certi inquinanti atmosferici. In verità a lui interessava mandare gente “fuori porta” al chiaro scopo di far scrivere materiale sorprendente e innovativo per far colpo sui suoi colleghi e farli bollire d’invidia – me lo disse egli stesso chiaramente. A me che avevo vissuto per ventisei anni nel profondo sud, Ispra e il suo Centro  mi parvero una favola, e trovarmi lì non mi pareva vero. Il parco scientifico era a ingresso controllato, esso ospitava i vecchi reattori nucleari ormai in fase di bonifica, più una vasta costellazione di edifici di ricerca circondati da prati e boschi di betulle, immersi in una leggera nebbiolina e popolati da lepri e fagiani. C’era un’ottima mensa con self-service che mi sollevava dal problema dei pasti, e i tesisti alloggiavano a prezzi ridicoli in villette accorpate a loro volta immerse nella quiete di una collina. Le risorse provenivano dall’Unione Europea, ed erano notevoli. Gli stipendi (io non ero pagato, il mio era uno stage) erano commisurati al costo della vita del Belgio, non dell’Italia, pertanto chi aveva un posto fisso lì si arricchiva facilmente in pochi anni. A Ispra rimasi poco più di un anno, incontrando gente da tutta Europa, soprattutto danesi, tedeschi e olandesi. Collaborai con due danesi. Di essi ricordo l’atteggiamento molto spontaneo e allegro; sebbene fossero ricchi e preparati, non si davano arie per nessun motivo al mondo. Sembrava di dialogare con compagni di liceo, sempre pronti alla battuta e all’atteggiamento “easy”. Un modo di fare un po’ diverso da certi diplomatucci nostrani che sono diventati direttori negli anni delle vacche grasse e sembra, a sentirli parlare, che Domineddio sieda alla loro destra. A Ispra imparai molto inglese, tutto l’inglese che non avevo imparato al liceo, dove per cinque anni il professore occupava l’80% del tempo a utilizzare la cattedra come suo palcoscenico, blaterando proclami e ricordi di vita vissuta, conditi dai racconti estasiati delle gesta del suo nipotino adorato, di cui naturalmente non fregava niente a nessuno. Era anche colpa nostra; eravamo troppo stupidi e immaturi per reagire o criticare la cosa. Però credo che certi insegnanti dovrebbero fare un esame di coscienza prima di alzare la mano a pugno chiuso contro il Governo per l’ennesimo “intollerabile” taglio alla scuola.
Inverno 1998, Euratom Ispra. In laboratorio con N.J., chimico danese
Ispra fu un bel periodo della mia vita. Quando ormai mancava poco per finire la tesi, i danesi mi offrirono un posto da assistente ricercatore:  le cose non potevano andare meglio. Tornai a Catania per due settimane e mi laureai; con l’acquolina in bocca feci ritorno al Centro di Ricerca. Ma della mia assunzione non se ne fece niente perché con perfetto tempismo arrivò Romano Prodi nella presidenza alla Commissione Europea e subito tagliò assunzioni e fondi. La manna era finita. Avevano dato una pedata alla ciotola del cane ancora prima che iniziasse a mangiare. Me ne feci una ragione e levai le tende. Il seguito della storia lo si può leggere nel post “La mia gavetta”.
I danesi, ho visto su internet, sembrano essere rimasti ancora al loro posto. Campano cent’anni, loro.
Non è solo questione di preparazione. Ci vuole anche fortuna, nella vita.

mercoledì 25 gennaio 2012

La mia gavetta


Luglio 2000. Orrenda foto scattata durante il turno di notte a fianco della calandra.
Dietro l'obiettivo c'era A., l'operaio defunto.


All’inizio di ogni attività lavorativa è previsto un periodo più o meno lungo di gavetta. Alcuni fortunati gavetta non ne fanno perché si trovano la strada spianata - e io trovo la cosa diseducativa; altri la fanno moderata, quasi indolore. Io la mia gavetta l’ho fatta, si è protratta per due anni ed è stata molto dura. Ne vado fiero.
Immediatamente dopo la laurea iniziai a cercare un posto nel settore chimico - era il 1999. Bussai a innumerevoli porte e lavoro non ne trovai perché a quell’epoca le aziende preferivano i periti chimici, più manipolabili e “versati sul piano pratico”, questo è quello che dicevano le grandi menti che mi intervistavano nei vari colloqui andati tutti a vuoto. Poichè dovevo lavorare e non avevo tempo per pensare a fare il classico viaggio-premio post laurea, mi accontentai di un posto di operaio bobinatore a calandra presso una ditta che produceva film in pvc, cioè tovaglie di plastica. Il lavoro era quanto di più robotizzato si potesse immaginare, inoltre si svolgeva su tre turni a ciclo continuo: mattina dalle 6 alle 14, pomeriggio dalle 14 alle 22 e notte dalle 22 alle 6 del mattino. Una vera meraviglia. Ogni giorno ne succedeva una, ogni minuto si poteva avere un incidente, poiché occorreva agire rapidamente usando lame a disco e coltelli affilati, movimentando pesi anche non indifferenti, senza alcuna interruzione e con la comunicazione verbale resa impossibile dal fracasso assordante prodotto dalla calandra, enorme mostro che si nutriva di pvc fluido e dopo averlo plasmato attraverso innumerevoli rulli, sfornava il rotolino o il rotolone di prodotto finito dal lato opposto dove ci trovavamo io e l’altro addetto, i bobinatori per l’appunto. A gennaio del 2000 stavo per rimetterci un dito della mano sinistra. Prendevo ordini (urlati) da gente che aveva il diploma di scuola media, e questa cosa, per quanto possa sembrare classista, mi umiliava e mi infastidiva: avevo studiato all’università per sei anni e questo era il risultato: un capoturno tamarro calabrese che a stento conosceva la lingua italiana urlava a me di muovermi, di fare in fretta. Lo stipendio era discreto grazie a quei turni snervanti – ma non si vive di solo pane. L’unico acculturato era il perito chimico che si occupava delle mescole in pvc; era giovane, corpulento e belloccio – faceva tutto di fretta, muovendosi schizofrenicamente da una parte all’altra del capannone. Scambiai due parole con lui e quando gli dissi che ero laureato in chimica emise uno sbuffo divertito come a dire: e che ci fai qui ? Quindi scappò via senza salutare.
Tutto sommato però quel periodo non fu del tutto sgradevole.  Benchè fossi “un corpo estraneo” andai d’accordo con tutti; lavorai anche insieme a due senegalesi: uno era insopportabile, un vero campione di presunzione e malcelata furbizia; l’altro era taciturno ma molto più interessante come persona; rifletteva molto, come me aveva progetti, idee. Molte di queste erano valide e costruttive. Fu un piacere lavorare con lui. Mi piacerebbe sapere che fine ha fatto.
Ricordo poi una spaghettata alle tre del mattino, guardando film su una televisione in bianco e nero che veniva tirata fuori solo di notte, quando i dirigenti non c'erano. Fuori nevicava e io ero lì insieme a quella gente. Fu una notte surreale e strana, fra le tante passate a movimentare chilometri di rotoli di plastica.
Nell’ultimo periodo lavorai con A., figlio di un capo turno. Era di un paese vicino, ed era la persona più invidiosa che avessi mai incontrato nella mia vita. Avido e sospettoso, incarognito con se stesso e il mondo, sempre pronto a provocare e a reagire per presunte mancanze di rispetto. Odiava visceralmente quel lavoro da operaio ma non faceva nulla per cambiarlo. Si vantava di andare con molte donne; non che fosse particolarmente bello, ma ci sapeva fare. Un giorno era particolarmente avvelenato e mi disse che se io mi trovavo lì con lui in quell’inferno era perché come laureato non valevo nulla. Dopo qualche mese parve ammorbidirsi; alla fine iniziò a sorridere, fece amicizia e ci sentimmo con piacere anche dopo che finalmente diedi le dimissioni da quel lavoro che non era certo fatto su misura per me.
Fu da altri colleghi che seppi che A. due anni dopo morì in un incidente stradale; poiché faceva tutto di corsa, istericamente, si schiantò con la motocicletta a folle velocità contro una fila di auto ferme ad un’uscita autostradale. Morì imprecando e bestemmiando, attribuendo tutta la colpa agli altri.
Il commento di molti ex colleghi fu che “in fondo era una testa di cazzo”. A me invece dispiacque; forse era una testa di cazzo, ma in fondo la sua irrequietezza era un po’ anche la mia. Non aveva avuto pazienza. Era troppo infelice, troppo scontento della sua vita, e il destino alla fine lo accontentò a modo suo.

E' proprio una strana cosa, il destino.

domenica 22 gennaio 2012

Avere vent'anni


In bicicletta attraverso la regione mineraria di Ingurtosu

Sardegna, luglio 1991. Io e una bicicletta, quattro vestiti, una tenda da 50000 lire e una macchina fotografica. Ormai ho perso il conto di quante volte ho rievocato quel viaggio, che è rimasto una delle esperienze più belle della mia vita. 1300 chilometri di educativa solitudine, che in realtà solitudine vera non fu mai. Ovunque c'era qualcuno disposto ad aiutare, ad ospitarmi, a fare amicizia. Viaggiavo con la formula "bussa alla porta" ma con le spalle coperte da un po' di denaro contante. Nella mia filosofia di viaggio non sono contemplati cappelli posati per terra a chiedere oboli - credo che sia meglio viaggiare con mezzi di sussistenza propri; quando viaggi da povero ogni cosa diventa un problema, devi perdere tempo a procurarti i soldi anche per un panino, e subisci umiliazioni e porte sbattute in faccia, lo so perchè ho conosciuto chi ha viaggiato così per anni, e ne è uscito incattivito con se stesso e il mondo. Se viaggi senza mezzi non ti godi il tuo tempo, la fotografia, devi sempre pensare a come tirare a campare un altro giorno. Sardegna 1991 mi insegnò che le mezze misure esistono, e che la libertà, le esperienze umane profonde, sono conciliabili con il denaro. In altre parole voglio dire che ero libero di chiedere a un contadino di poter montare la tenda sul suo campo, ma che in caso di risposta negativa potevo dormire in albergo. Questa è per me libertà di scelta. Ricordo certi pomeriggi di quel viaggio come fosse adesso, percorrendo strade sterrate attraverso regioni minerarie, dormendo in case abbandonate. Lo rifarei adesso ? Sarebbe la stessa cosa ? Sono domande sensa senso. Ma me le faccio lo stesso - chiunque se le fa. Ognuno ha avuto a vent'anni la sua Sardegna, e forse inseguiamo sempre quel ricordo con la speranza che non tutto è perduto. Io guardo avanti, verso nuove esperienze, e non mi importano auto lussuose o i-phone da 700 euro. Se anche per un attimo mi sentirò come allora, come quando avevo vent'anni, sarò la persona più ricca della terra. Negli ultimi dodici anni ho lavorato soltanto per questo scopo.

Su strade sterrate verso la costa occidentale.

giovedì 19 gennaio 2012

Le Pale di San Martino al tramonto

Era da tempo che volevo visitare le leggendarie Pale di San Martino di Castrozza. Finora le avevo sempre viste in fotografia, su innumerevoli riviste. Adesso è arrivato il mio turno. Partenza da Saronno con un collega appassionato di montagna e alpinismo alle sette del mattino - quattro ore di viaggio e siamo al Passo Rolle. Da lì procediamo alla volta della Baita Segantini, m.2200. Attendiamo il tramonto con treppiedi e macchine fotografiche, e puntuale arriva lo spettacolo delle cime incendiate di rosso. Sono venti minuti intensi, in cui come sempre io e la Nikon siamo una cosa sola. Solo chi ha questa passione può comprendere cosa voglio dire. Poi il silenzio della montagna, la notte passata in tenda a 11 gradi sottozero, fortunatamente resa più confortevole da attrezzature tecniche che a vent'anni mi sognavo di avere. L'alba del giorno dopo è gelida e serena, facciamo colazione con fornelletto da campo e ritorniamo. Una gita poco faticosa ma indimenticabile, in uno degli scenari più belli delle Dolomiti.


La colazione dopo la notte passata in tenda a Punta Rolle, m.2222

Luci e ombre sulle pareti dolomitiche

sabato 14 gennaio 2012

La vera ricchezza è il tempo

E' tempo di volare

Quando domandi a chiunque in cosa consiste la ricchezza, la risposta è quasi sempre fornita dall'immagine stereotipata che si ha della ricchezza stessa: fare una vita da nababbi, andare al resort di Bali, sfoggiare Porsche, erigere ville e piscine, spendere e spandere. Per me la ricchezza è una sola: disporre in piena salute fisica e mentale del proprio tempo, conducendo contemporaneamente una vita più che dignitosa. Una degli aspetti del lavoro dipendente che ho sempre trovato insopportabile consiste(va) nelle vacanze comandate: il dio azienda stabilisce che si vada tutti in vacanza in pieno agosto, che è notoriamente il mese peggiore per viaggiare e vedere il mondo: ressa, folle, caldo e masse dappertutto. Io amo da vent'anni la bicicletta, e viaggiare con essa. E se volessi intraprendere un viaggio in bici di due mesi in primavera, mettiamo partendo a marzo oppure in ottobre? Dovrei recarmi con il cappello in mano dal datore di lavoro e supplicare un periodo di aspettativa o periodo sabbatico che dir si voglia: "ho lavorato tanto, anche il sabato e la domenica, credo di meritarmelo"...lui con i suoi begli occhi verdi mi guarda e mi dice: "sai tutti abbiamo sogni nel cassetto, so che te lo meriti il tuo periodo di riposo, ma vedi...se io rispondo di sì a te poi dovrei dire di sì a tanti altri". Quindi la risposta è un NO e il risultato sarebbe il seguente: potrei viaggiare liberamente in bicicletta per due mesi di seguito tra trent'anni, cioè quando avrò settant'anni suonati e magari quell'innocuo dolorino al ginocchio destro si sarà trasformato in un'artrite. Dopo verranno la vecchiaia e la fine. E dopo non credo ci sarà un replay, perchè esso è una funzione disponibile solo sui dispositivi elettronici, non su quelli umani. Credo che il più bel regalo che abbia potuto fare alla mia vita, dopo le dimissioni dal lavoro dipendente, sia proprio questo: la ricchezza del tempo. Tempo per me stesso, 365 giorni l'anno, per fare ciò che desidero quando, come e dove voglio senza chiedere permesso a nessuno. Questo non comporta realizzare imprese fuori dalla logica, difficili e dispendiose - occorre sempre avere il senso della misura. Infatti quando sarò in viaggio non cercherò hotel lussuosi nè cibi raffinati: mi basterà sentire l'odore della terra, respirare l'aria della  libertà, sedermi sotto un albero a mangiare un panino, accendere un fornelletto da campeggio e sorseggiare una tazza di caffè solubile - chi si troverà a passare da lì, dall'alto del suo balordo suv penserà "ma guarda quel poveretto"...Io sarò invece felice, avrò dentro di me una gioia smisurata, quella stessa gioia che abbiamo da bambini quando scappando facciamo marameo con la mano a un adulto: "non mi prendi più!" - corro ormai per me stesso, libero e felice - ebbene sì: è tempo di volare!