martedì 26 gennaio 2016

A piedi lungo l'antica via Regina del lago di Como. Da Menaggio a Rezzonico.




    Abbiamo percorso un altro tratto dell'antica Strada Regina, asse di comunicazione che si svolge sulla sponda occidentale del Lago di Como.
Questo segmento risulta un po' più movimentato rispetto al primo e richiede tre ore buone di marcia.

    Si parte da Menaggio. E' possibile parcheggiare in via Cipressi, vicino al cimitero - da qui, superato l'ingresso del campeggio Europa, si seguono le ottime indicazioni del foglio 13 e ci si dirige a nord. I paesaggi sono fin dall'inizio magnifici.





in alto e in basso: per questo tratto
la segnaletica è costituita da cartelli in legno
del Giubileo del 2000 e da segnavia rosso-bianco-rosso
del CAI Comunità Montana Alpi Lepontine.
Il mio voto sulla segnaletica è: 9 su 10.






    Dopo aver oltrepassato Nobiallo con il suo campanile pendente si imbocca un lungo tratto di Strada Regina ben conservato. Si sosta al bel Santuario della Madonna della Pace e si continua a salire fino a un punto molto panoramico.


 
La chiesa di San Bartolomeo a Nobiallo con il campanile pendente.

Il Santuario della Madonna della Pace, 1660.



Panorama sul lago di Como dal Sasso Rancio, unico punto "impegnativo" del percorso.

Un tratto ben conservato dell'antica Strada Regina.







    A metà percorso si incontra il borgo di Acquaseria; qui è possibile procurarsi i biglietti per il ritorno in autobus (linea C10): acquistarli sull'autobus comporta infatti un sovrapprezzo di 1,30 euro.

    Tra campi e ville si sale a Mastena, piccolo centro dalle case di pietra posto a mezzacosta, quindi si ridiscende verso il lago. La chiesa di Santa Maria (1464) presso la località San Siro, possiede degli interni splendidi.








    Percorriamo un ultimo pezzo di antica strada tra muri e piccoli campi e siamo a Rezzonico. Obbligatoria la visita al porticciolo, che sembra rimasto intatto nel tempo. Dal pittoresco molo si risale lungo strette vie acciottolate giungendo finalmente al castello e, in breve, alla fermata della linea C10 che riporta al punto di partenza.


Percorso magnifico e interessante; sempre al sicuro e al riparo dal traffico.

Vivamente consigliato da Lupolibero.






Il piccolo molo di Rezzonico, alla fine del percorso.

Il castello di Rezzonico, del 1300.


Per il primo tratto della Greenway vai su questa pagina.


Scheda dettagliata in formato pdf a quest'indirizzo.
alla prossima !

giovedì 21 gennaio 2016

Addio Glenn, e grazie per avermi fatto sognare.





    Ascolto gli Eagles da una vita, da 28 anni per l'esattezza. Le loro note, la loro musica mi hanno accompagnato in montagna, in bicicletta, nei viaggi, nei rifugi, nelle passeggiate, nelle ore di pausa durante gli studi all'università, in quelle passate in campagna nel corso della mia nuova vita. Sono stati e saranno sempre una pietra miliare nella mia esistenza.

Glenn Frey è deceduto all'età di 67 anni. E io sono uno solo dei milioni di fan sul pianeta Terra che stanno in questo momento scrivendo necrologi in Sua memoria.

   L'ultima volta che ho ascoltato, per la milionesima volta, Take it Easy, è stato sul gran cratere dell'isola di vulcano. Pertanto dedico a Glenn, per quello che possa valere, quest'immagine:




   
   67 anni, amico. Potevi andare avanti ancora un po', dannazione. E lo dico perchè sotto-sotto sono un po' incazzato. Perchè ? Perchè penso a tutti quegli anziani ultraottantenni ingrugniti e insopportabili, ostili e viziati, che campano ancora. Quelli che hanno una fretta della malora al supermercato, che si fanno prescrivere farmaci e visite specialistiche a iosa con lo scopo di vivere altri cent'anni; che bivaccano negli studi medici pesando come macigni sul Sistema Sanitario e facendo perdere tempo a chi ha veramente bisogno; che proclamano di aver "fatto l'Italia", di aver vissuto fame e stenti - e poi li vedi che comprano pacchi di patatine e schifezze e in casa tengono il riscaldamento a 30 gradi; che pesano con le loro lamentele e malattie immaginarie sui figli, rendendogli la vita un inferno.

   Quelli che a 91 anni guidano contromano in autostrada e rischiano di far fuori ignare e innocenti persone, come il grande eroe in questo articolo del 4 gennaio scorso. Dio stramaledica loro e chi gli ha rinnovato la patente -

   Sono un po' incazzato perchè - sì lo so - è pura statistica, o destino, o quello che volete, ma sembra che spesso e volentieri va prima al camposanto chi non lo merita. Ma avete ragione, chi sono io per stabilirlo ? Ecco, ho finito.

Buon viaggio, Glenn. 
E grazie per avermi fatto sognare -

 

mercoledì 13 gennaio 2016

A piedi lungo la Greenway del Lago di Como. Da Colonno a Cadenabbia.







Niente tenda né accampamenti selvaggi, stavolta. Abbiamo percorso a piedi 11 chilometri lungo la Greenway del Lago di Como. Questo percorso si snoda lungo la via Regina, antico asse di comunicazione che si sviluppa sulla riviera occidentale del lago. Ottimamente segnalata e poco impegnativa, la Greenway permette di godere in pieno del paesaggio lacustre, attraversando piccoli borghi ed evitando la stretta e pericolosissima statale costiera, tra ville principesche e adorabili porticcioli.






La Greenway inizia a Colonno. Occorre parcheggiare l’auto nell’unica strada possibile, la ripida via Cappella - a sud del paese ( indicazione ‘Greenway del lago’ – cartello marrone ). Dopo poche centinaia di metri si imbocca la via Civetta e si attraversa il nucleo antico di Colonno; da qui in poi basterà seguire i numerosi cartelli con freccia gialla su fondo blu e i lastroni di granito posti per terra con il logo circolare della Greenway. Il mio voto sulla segnaletica è: 9,8 su 10.



 Lungo tutta la Greenway si trovano a distanze regolari questi
dischi di metallo che segnano il percorso: la reputo un'idea geniale.



Veduta di Colonno, il paese dove inizia la passeggiata.

 
Alba invernale sul Lario, il lago di Como.


Richiamo al rispetto delle regole...


    E' stata una bella sorpresa, arrivati a Lenno, scoprire che la Greenway passa proprio di fronte al piccolo albergo Lavedo, dove quattro anni fa ho trascorso la prima notte del viaggio in bici verso la Lapponia !  Il lido di Lenno è bellissimo, con il suo porticciolo e le ville storiche.

    Superata Lenno si sale (brevemente) sino a Mezzegra e al piccolo villaggio di Bonzanigo, stretto tra l'incombente montagna e gli ulivi piantati sui terrazzamenti costieri. Si ridiscende su strade acciottolate sino a sfiorare eleganti ville che da questo punto in poi saranno il pezzo forte del percorso.

Il lido di Lenno.

Sosta presso la chiesa di Sant'Abbondio, Mezzegra.

Il piccolo nucleo di Bonzanigo.





     Il tratto finale, tra Bolvegro e Tremezzo, si svolge a destra della statale, sempre protetto dalle auto inferocite. A Bolvedro abbiamo sostato per mangiare qualcosa presso il piccolo, meraviglioso, Parco Olivelli. La passeggiata termina a Maiolica, frazioncina costiera di Cadenabbia. Per il rientro a Colonno si sale sul pullman C10.

Nel complesso, un modo bellissimo per vivere il lago in tutta sicurezza:
- paesaggi unici
- quiete, pulizia e civiltà
- indicazioni precise

Consigliato vivamente da Lupolibero
( noto per la sua intolleranza e la critica facile... )

Scheda del percorso a questo indirizzo

enjoy !




Greenway del Lago  -  in alto: l'eleganza del parco Olivelli, poco prima
di Tremezzo.
Sotto: accanto a un pino secolare del parco sopracitato.



Lo sfarzo di una delle numerose ville presenti lungo il percorso.


giovedì 7 gennaio 2016

From Italy to Lappland 2012, diario di viaggio.



Non che voglia continuamente rimpastare il glorioso passato,
 ma a distanza di quasi quattro anni ho scritto un riassunto del viaggio in bici
verso la Lapponia a motivo del fatto che le pagine
pubblicate all'epoca, per quanto autentiche, apparivano
un po' scollegate tra loro e difficili da reperire. 

Il tempo di lettura di questo riassunto, 
che reputo molto efficace,
è superiore ai 10 minuti.







From Italy to Lappland, dall’Italia alla Lapponia, fu un’idea fissa nata nel lontano 1998, all’epoca in cui ero ancora studente di Chimica. Alla fine dell’università avevo infatti in programma di caricare armi e bagagli su una bici da turismo e con essa raggiungere l’estremo nord dell’Europa. La vita cambia però spesso le carte in tavola, e finì che dopo la laurea eventi familiari imprevisti – e successivamente la ricerca niente affatto facile di un lavoro, decretarono l’accantonamento del progetto.

Si sa anche che il fuoco cova sotto la cenere; e una mattina di gennaio del 2010 mentre uscivo da casa per recarmi al lavoro, osservai per un attimo il disco del sole rosso fuoco che sorgeva su un campo agricolo imbiancato dalla neve. Improvvisamente il pensiero andò a quel viaggio mai realizzato; alle innumerevoli ore trascorse sulle carte geografiche cercando vie, corridoi, per sgusciare attraverso la caotica rete stradale europea sino alla Lapponia. Ci sarebbe stata un’altra chance ?

A dicembre del 2011 annunciai le mie dimissioni. Dodici anni di regole, divieti, norme, in un ambiente non mio e altamente nevrotizzante, che non mi lasciava la minima libertà, erano abbastanza. Dissi basta. L’ultimo giorno di gennaio del 2012 sarebbe stato il mio ultimo giorno di lavoro - l’ultimo nell’ingranaggio del cosiddetto Sistema. Timbrai il cartellino e dissi addio a quel mondo che non mi apparteneva – e al quale tutto sommato non ero appartenuto. Il pensiero era già alla libertà: e quale libertà può essere più grande di un viaggio in bici senza limiti di tempo stabiliti ?

Trascorsi febbraio allenandomi; per fortuna si trattava di un inverno non troppo freddo. La bici era pronta da tempo, era un modello ibrido assemblato da un artigiano della provincia di Varese. Avrebbe sopportato migliaia di chilometri con un carico di oltre quaranta chili. Avevo inoltre trascorso gli ultimi mesi ordinando su internet tutto il materiale che mancava; i pezzi forti erano: tenda resistente a doppio telo, sacco letto invernale e abbigliamento tecnico per resistere a temperature prossime allo zero. Decisi che la data della partenza sarebbe stata il 12 marzo, sei giorni dopo il mio quarantesimo compleanno.


 LA PARTENZA.
Preparai febbrilmente i bagagli due giorni prima. Ci furono un sacco di problemi a stipare correttamente tutto il materiale. Partire senza tenda e fornelletto rende le cose molto più facili: un sacco di peso e di volume in meno – ma io avevo progettato di viaggiare in assoluta indipendenza: non avrei disdegnato ostelli o Bed & Breakfast, ma neanche accampamenti selvaggi in tenda, anche per limitare i costi di permanenza in nazioni come la Danimarca o la Norvegia.

Partii alle 7 direttamente dalla porta di casa in direzione di Como. Era lunedì e il traffico era molto intenso. Raggiunsi Como e sostai nella bella piazza del Duomo, scambiando due parole con un gruppo di turisti giapponesi. Poi continuai lungo il lago, soffermandomi a osservare le ville principesche. Nel pomeriggio raggiunsi un alberghetto economico nei pressi di Lenno e mi fermai. Il giorno successivo avanzai verso nord in direzione del confine con la Svizzera - finora la strada non era stata particolarmente difficoltosa in termini di salite, ma queste iniziarono dopo Chiavenna e furono come una sberla improvvisa. Arrivai sudato e stravolto a Villa di Chiavenna, a pochi passi dal confine, e mi fermai in un vecchio albergo affacciato sulle ripide gole del fiume Mera. La sera cenai con una grossa bistecca presso un bel ristorante poco distante, raggiungendolo a piedi lungo una mulattiera che si snodava tra case da presepio. Per la prima volta mi sentivo realmente in viaggio.

In una mattina soleggiata raggiunsi il confine ed entrai in Svizzera. La strada era tranquilla, attraversava radi villaggi di case di pietra, il traffico era scarso. Iniziarono i tornanti per il Passo del Maloja, di oltre 1800 metri. Superai uno dopo l’altro una serie di tornanti che si avvolgevano come i gironi danteschi, poi - lo confesso - due chilometri prima del valico dovetti mettere il piede a terra. In bici procedevo infatti così piano che avrei rischiato di perdere l’equilibrio. Superato il passo feci una breve sosta, quindi puntai in direzione di San Moritz e Pontresina, dove mi sarei fermato. Iniziava adesso la lunga pista del fiume Inn che mi avrebbe portato in leggera discesa sino a Innsbruck, nel cuore asburgico d’Europa.

Per decine e decine di chilometri mi godetti il paesaggio dell’Engadina; ad Ardez, villaggio dalle case con le pareti dipinte, rischiai di cadere a causa di una lastra di ghiaccio sulla strada – per fortuna l’avevo avvistata in tempo e avevo rallentato. Mi fermai a Ramosch, a pochi passi dal confine austriaco. Raggiunsi l’Austria l’indomani mattina, seguendo pedissequamente il corso del fiume Inn. La ciclabile era ancora per lunghi tratti impraticabile perché coperta di neve, pertanto dovevo usare la strada destinata ai mezzi a motore, cosa che alle volte faceva innervosire gli autisti. Giunsi a Landeck all’ora di pranzo, mentre c’era un mercato pubblico. Si avvicinò una bella ragazza abbigliata in modo provocante anche se di cattivo gusto, e mi chiese “in prestito” il mio bancomat. Ovviamente rifiutai. A breve distanza avevo scorto con la coda dell’occhio il suo partner, che l’aveva istruita. Sembravano due tipi dell’est; finii di mangiare il mio panino e girai al largo: con tutta la gente danarosa che andava in giro, quei due idioti avevano scelto proprio me !  Il giorno successivo raggiunsi Innsbruck, i cui bei palazzi in stile mitteleuropeo si specchiavano sulle acque verde smeraldo del fiume… ho già detto quale. L’ultima notte in Austria la trascorsi in una minuscola pensione economica gestita in modo impeccabile da un’anziana vedova: per soli 20 euro ebbi a disposizione una camera da sogno e una colazione indescrivibile. Che bella vita !


 LA VECCHIA EUROPA.
Il viaggio virava a nord, adesso. La Germania era vicina. Superai a fatica il passo di Maurach, oltre quattro chilometri con pendenze dell’8%. Ripresi quindi a scendere verso un lago e mi fermai a mangiare il mio primo strüdel presso un bar con i tavolini all’aperto, servito da camerieri che facevano chissà perché gli altezzosi - mi guardavano dall’alto in basso. Continuai costeggiando il Sylventeinsee, un grande lago completamente ghiacciato, infine entrai in Germania. Raggiunsi nel pomeriggio la bella città di Bad Tölz, trovando alloggio presso un enorme ostello avveniristico che si trovava ai margini di un’area sportiva.

La mattina dell’ottavo giorno di viaggio pioveva. Indossai i sovra-pantaloni e la preziosa giacca in goretex e avanzai sotto una pioggia mista a nevischio lungo le colline bavaresi in direzione di Monaco. Raggiunsi facilmente la metropoli, fresca e pulita. Niente brutti ceffi né caos. Visitai la Marientplaz con il suo municipio gotico e gettai uno sguardo alla Hofbrauhaus, dove si riunì per la prima volta, nel febbraio del 1920, il partito nazionalsocialista. Puntai quindi verso Dachau, dove l’indomani mi sarei fermato un’intera giornata.

Il campo di concentramento di Dachau era ben indicato da cartelli con la scritta KZ. E’ un luogo molto vasto, aperto; delle numerose baracche originariamente presenti, ne rimanevano solo due. Visitai la mostra fotografica, i forni crematori, il locale docce e restai soprattutto colpito da una famiglia di turchi che andavano in giro sghignazzando apertamente – sembrava che fossero al luna park. Anche le numerose scolaresche facevano lo stesso: urla, battute e risate. A onor del vero devo dire che le scolaresche italiane erano appena un po’ più educate. Me ne andai disgustato e ritornai all’ostello di Dachau, un meraviglioso edificio disegnato da valenti architetti e con una fantastica cucina.

Da Dachau raggiunsi Donauwörth navigando in un paesaggio di colline verdi non rovinate da capannoni o industrie. A pranzo mangiai qualcosa presso un campo agricolo; ascoltai Jackson Browne e mi tolsi le scarpe, mi sentii davvero libero e felice. Nel pomeriggio incrociai il fiume Danubio, che qui era ancora stretto e poco maestoso. Il giorno successivo imboccai un’altra ciclabile, quella del fiume Tauer, che scorre nella famosa Romantichestrasse, quindi raggiunsi Gaukönigshofen, un piccolo borgo rurale al centro di un’immensa campagna coltivata a seminativo. Il 13° giorno di viaggio oltrepassai la città universitaria di Wurzburg, quindi chiesi il permesso di piantare la tenda presso una fattoria-ristorante. Il proprietario mi negò il permesso invocando banali scuse e sollevando la disapprovazione generale; me ne andai a testa alta e piantai la tenda di prepotenza in un bosco occultato alla vista, meno di 300 metri dopo.

Dopo la prima notte in tenda raggiunsi la bella cittadina di Fulda, dalle case con le travi di legno a vista sulle facciate. Erano le vere case tedesche che si vedono nelle fiabe, le case che avevo sempre sognato di vedere. Inoltre avevo raggiunto un primo traguardo: poco prima di Fulda il contachilometri aveva segnato la cifra 1000. Lasciata Fulda proseguii lungo l’omonimo fiume sino a Melsüngen, altra adorabile cittadina germanica che esplorai a lungo con l’obiettivo. I giorni successivi avanzai sempre verso nord sino alla bassa Sassonia, sferzata dal vento e caratterizzata da umidi brughiere. Il paesaggio era etereo, in qualche modo affascinante, ma spesso la visione che abbiamo è deformata dall’occhio del vacanziero: vivere a lungo termine in un determinato posto è tutt’altra cosa.

Germania centrale, le belle case di Melsungen


Il 20° giorno raggiunsi Brema, visitandone la grande piazza con la cattedrale, la statua alta 13 metri del cavaliere Rolando e ovviamente, il monumento ai tre musicanti, forse ancora più famoso !   Pedalai per decine e decine di chilometri lungo rettilinei infiniti sotto una pioggia leggera, spesso imprecando contro un forte vento contrario. Attorno a me solo pianura, betulle e fattorie, sino alla città di Stade, affacciata sull’Elba – vera perla di città dotata di un sistema di canali simile a Venezia. Il giorno successivo presi un ferry per attraversare l’Elba, quindi proseguii il viaggio verso Fehmarn, con sole e vento finalmente a favore. Per la prima volta vedevo il mare. La Danimarca era vicina – l’avrei raggiunta l’indomani. Non mi dispiaceva passare un’ultima notte in Germania, una nazione meravigliosa, forse sovrappopolata e un po’ ossessionata da regole e divieti, ma pur sempre un paese civile, affascinante e dall’altissimo rapporto qualità-prezzo.

Tappa 25: “Cielo grigio che non promette niente di buono e vento contrario”. 45 minuti di traghetto su un mare scuro e poco invitante mi portarono in terra danese. Combattei per 80 chilometri contro un vento sempre più gelido lungo colline spoglie sino a Vørdingborg, dove trovai l’ostello chiuso. Una coppia di coniugi a cui avevo chiesto indicazioni si offrì spontaneamente di ospitarmi in casa loro. Passammo la serata bevendo vino sudafricano e parlando dei nostri paesi. Il commiato, il mattino seguente, fu davvero toccante. Pedalai lungo la costa orientale danese facendo tappa a Køge (pronuncia ‘Kiuef’), presso un campeggio affacciato su una spiaggia ampia e sabbiosa; il giorno successivo percorsi altri 54 chilometri e guadagnai Copenhagen. Visitai la capitale sotto la pioggia, fermandomi a fotografare la leggendaria Sirenetta.



 VERSO NORD.
Da Helsingör presi il traghetto per la Svezia. Ero molto emozionato; il gioco si faceva serio.  Sbarcato a Helsingborg, acquistai dettagliate e costose carte geografiche presso l’ufficio turistico, quindi iniziai a pedalare per 70 chilometri sino a Mörarp, piccolo borgo agricolo. Chiesi di piantare la tenda presso un’abitazione, e la risposta fu positiva. Moglie e marito mi offrirono anche una doccia calda, una discreta cena e un’ottima birra svedese. La sera mi addormentai col suono delle gocce di pioggia che battevano sul telo della tenda. La Svezia mi piaceva. Il paesaggio era piacevole anche con il cielo grigio e il brutto tempo, le salite erano affrontabili, ma soprattutto il traffico era ovunque molto scarso. A Bjärnum chiesi di piantare la tenda presso una fattoria. La donna, divorziata, mi offrì di dormire in una casetta di legno destinata agli ospiti. Lo stesso avvenne il giorno successivo, in località Hullingsved. Il 13 aprile, a poco più di un mese dall’inizio del viaggio, raggiunsi Växjö e mi sistemai in un ostello di legno di fronte a un placido lago. Il tempo si fece freddo ma soleggiato, continuai a pedalare tra campagne e fattorie. La Svezia mi ammaliava, sembrava il paese delle favole. Mi fermavo per pranzo a mangiare presso i cimiteri; può sembrare strano, ma erano veri e propri giardini verdi e curati, per niente lugubri. Si trovavano vicino alle chiese principali dei villaggi, emanavano pace e sicurezza. La sera poi raggiungevo una fattoria e chiedevo gentilmente di potermi accampare – nel 90% dei casi i proprietari non rifiutavano.

A Morarp, prima giornata in Svezia.


A Tranås, poco distante dal grande lago Vättern, fui ospite in casa di due anziani adorabili – non capivano una virgola di inglese eppure si fecero in quattro per agevolarmi. A Latorps fui ospite in una casetta di legno ad uso sauna; il vicino, saputo della mia presenza, venne a trovarmi e mi raccontò a grandi linee la sua vita, la perdita della sua compagna, poi mi offrì un contributo in denaro per il mio viaggio, che rifiutai gentilmente. Ci abbracciammo commossi. A Nora feci il backup delle fotografie presso lo studio di un fotografo che accese lo stereo a tutto volume facendo suonare le note dell’inno nazionale italiano in mio onore. Ci alzammo in piedi e cantammo insieme tra le facce esterrefatte dei clienti.

Arrivò finalmente la neve. Ne avevo sentito parlare da giorni e me la beccai dal primo all’ultimo minuto della 37^ tappa da Kopparberg a Fallet. Trovai rifugio per la notte piantando la tenda sotto un riparo di legno, una specie di tettoia con tre pareti. Il giorno successivo raggiunsi Borlänge, centro minerario legato all’estrazione del rame, fermandomi in ostello – calda oasi dove asciugai tutto il materiale inzuppato. Nello stesso ostello fui intervistato da due giovani giornalisti per un giornale locale. La ragazza che mi faceva le domande era una venticinquenne che sembrava un angelo pronto per l’annunciazione – non avevo mai visto in vita mia una creatura femminile così bella. La strada si fece sempre più solitaria man mano che avanzavo verso nord – a Kvarnberg, minuscolo atollo di poche case di legno, dormii in casa di un’anziana ultraottantenne. Avevo paura ad accamparmi in tenda per il pericolo degli orsi. A Sveg, piccolo centro dalle case invariabilmente gialle o rosse, dedicai un’intera giornata a oziare.

Il 50° giorno di viaggio, al km 3487, giunsi a un enorme cartello si legno con la scritta Lappland: finalmente ero in Lapponia, regno delle foreste di conifere, betulle e renne. Avvistai infatti un branco pochi minuti dopo. Mi accampai sulla neve presso un fattoria a poca distanza dalla cittadina di Dorotea. Da qui pedalai per centinaia di chilometri letteralmente nel nulla; i centri abitati si fecero sempre più scarsi, dovevo calcolare bene tempi e distanze. Il traffico era ridotto ai minimi termini - ogni tanto venivo sorpassato a debita distanza da enormi tir che trasportavano legname; rispondevo suonando il campanello di Littoria, la mia bici, con la quale parlavo spesso per ingannare la solitudine.

Fu in quest’atmosfera surreale ed emozionante che raggiunsi finalmente l’immaginaria linea del Circolo Polare Artico, a quasi 4000 km da casa. Seguirono colline, foreste e laghi ghiacciati; oltrepassai i centri minerari di Gällivare e Svappavaara, infine mi fermai a Kiruna, il più grande centro della Lapponia svedese, città legata all’estrazione del ferro.

Mi fermai un giorno a Kiruna, fotografandone la bella chiesa di legno dallo stile russo costruita agli inizi del 1900, ma anche il paesaggio spettrale della miniera. Lasciata la città, feci rotta verso il grande lago Torneträsk, ghiacciato e circondato da montagne innevate. La Svezia finiva qui e l’avevo percorsa tutta da sud a nord, senza scorciatoie. Un paese fantastico e accogliente in cui, davvero, mi piacerebbe ritornare.

Chilometri di strada tormentata in un paesaggio innevato mi condussero finalmente al confine con la Norvegia, annunciato da un semplice cartello blu. Seguirono altre brevi salite, quindi planai velocemente verso la costa. In poco tempo, perdendo quota tornante dopo tornante, arrivai sino al mare, a nord del fiordo di Narvik. Il clima era tutt’altra cosa, tiepido e temperato – un altro mondo rispetto alla gelida Svezia. La E10, strada costiera, era piuttosto trafficata. In breve mi diressi verso arterie secondarie finendo per accamparmi in tenda presso Bjerkvik, di fronte al mare su cui si specchiavano montagne innevate. A Sølvek, il giorno dopo, feci lo stesso – mi accampai presso una rimessa per barche semi abbandonata. Il proprietario, avvertito dai vicini, arrivò e mi sorprese sul posto. Non disse nulla e andò via. Tornò dopo dieci minuti con un carico di legna per consentirmi di accendere un fuoco. Fu una bella serata.


Serata in tenda a Bjerkvik, su un fiordo norvegese.


 Pedalai sempre verso nord sino all’isola di Andøya, che raggiunsi con un traghetto. Prima di arrivare ad Andenes, avamposto sul mare, fui spinto da una vera e propria bufera con venti micidiali provenienti da sud – se li avessi avuti contro non sarei mai arrivato in così poco tempo. Mi rifugiai in un edificio che fungeva da alloggio per operai, nei pressi del porto, occupando abusivamente una stanza libera al primo piano. Mi addormentai ascoltando il vento che faceva tremare l’intero edificio. A Risøyhamn, minuscolo villaggio di pescatori, un ex impiegato delle poste mi procurò una sistemazione per la notte in un Lavvu, un rifugio lappone a forma di piramide interamente costruito in legno. Alle 4 del mattino successivo mi imbarcai per Tromsø sulla famosa motonave Hurtigruten. Da Tromsø, che visitai brevemente, raggiunsi Skibotn, il punto più settentrionale del viaggio. In molti credevano che lo scopo di questo tour fosse invece raggiungere Capo Nord, meta di massa che non mi attirava per nulla.

Così feci fuori anche la Norvegia. In una giornata scura e piovosa affrontai la salita verso il confine finlandese; il paesaggio era brullo e solitario; prima cascate e torrenti, poi pietraie. Passai il confine e proseguii per alcuni chilometri sino a trovare riparo all’interno di una piccola legnaia sul lago Kilpisjärvi ghiacciato. Il fuoco che accesi quella sera, con legna di betulla, fu uno dei più entusiasmanti: ero e mi sentivo nel pieno dell’avventura.

La Finlandia del nord era una terra solitaria e ventosa. Da settimane non c’era quasi più differenza tra il giorno e la notte; in pratica il sole non tramontava mai. Tra le due e le quattro del mattino c’era quel chiarore che precede l’alba. Tra renne e laghi discesi il corso del fiume Muonio sino al piccolo villaggio di Karesuvanto, sistemandomi nella cabina di legno di un campeggio. A Lappea una donna mi negò il permesso di accamparmi ancora prima che glielo avessi chiesto; a Saarensilta un’anziana a cui avevo chiesto gentilmente un litro d’acqua per la borraccia mi sbattè la porta in faccia. Cominciai ad averne abbastanza della Finlandia, la trovavo avvilente dal punto di vista umano e paesaggistico – inoltre era anche un paese sporco; ovunque trovavo immondizia. Un conto è credere ai luoghi comuni: pulizia, civiltà ecc.  -un altro conto è vedere con i propri occhi. Mi sorbii ancora questo deludente paese sino a Oulu, vantata come città universitaria e cosmopolita, con un “caratteristico mercato all’aperto”: era invece un piccolo centro anonimo con le piste ciclabili ricavate semplicemente dai marciapiedi e le scritte in finlandese, indecifrabili. Quanto al mercato, faceva pena: un’accozzaglia di bancarelle misere da cui si spargeva un disgustoso odore di fritto. Il pensiero andò ai mercati della Sicilia – in confronto erano di un’opulenza smodata. Spesso noi italiani soffriamo di esterofilìa cronica… 




Lungo le infinite strade della Lapponia finlandese.

 EPILOGO.
Ed eccomi infine a Helsinki. La capitale finlandese mi apparve come una metropoli senza troppe pretese. Poco romantica e con molte influenze russe nell’architettura; una città né bella né brutta, né carne né pesce. L’addetta alla reception dell’ostello mi indicò la strada per raggiungere facilmente in bici l’aeroporto. Io di queste indicazioni “facili” ne dubitavo parecchio, infatti dopo pochi chilometri mi ritrovai in un’autentica superstrada dove camionisti e automobilisti facevano a gara nell’urlarmi di andarmene fuori dai piedi. A fatica mi tirai fuori da quell’incubo ed entrai nell’edificio dell’aeroporto, dove un costoso volo mi avrebbe portato in Italia, a Malpensa.

Il viaggio ormai era quasi alla fine. Uscii dall’aeroporto e annusai l’aria. Era più calda e molto umida. Rimontai la bici e mi diressi verso Vizzola Ticino , rifugiandomi all’interno di un opificio abbandonato, giudicato sicuro. Il suono delle campane mi ricordò che mi trovavo di nuovo in Italia, a casa mia, e la cosa non mi dispiaceva. Montai per l’ultima volta la tenda, che mi salvò dalle zanzare. Era la sera del 4 giugno, l’ultima sera del viaggio, che emozione !  Mi era rimasto ben poco da mangiare ma non mi importava. Nel bene e nel male avevo attraversato tutta l’Europa, realizzando quel vecchio sogno. Avevo visto laghi, montagne, canali, città, fiumi, colline, boschi; avevo incontrato persone ospitali e meravigliose che mi avevano aperto la loro porta. Avevo provato a me stesso che con la volontà si fanno cose impensabili ed ero contento che tutto fosse finito bene.

La bicicletta giaceva per terra, anche lei sembrava esausta. Sul manubrio, il contachilometri segnava 5511 km. In totale, avevo attraversato sette nazioni.


Vizzola Ticino, Lombardia. L'ultima notte del viaggio, in un opificio abbandonato.