Non che voglia continuamente rimpastare il glorioso passato,
ma a distanza di quasi quattro anni ho scritto un riassunto del viaggio in bici
verso la Lapponia a motivo del fatto che le pagine
pubblicate all'epoca, per quanto autentiche, apparivano
un po' scollegate tra loro e difficili da reperire.
Il tempo di lettura di questo riassunto,
che reputo molto efficace,
è superiore ai 10 minuti.
From Italy to
Lappland, dall’Italia alla Lapponia, fu un’idea fissa nata nel lontano 1998,
all’epoca in cui ero ancora studente di Chimica. Alla fine dell’università
avevo infatti in programma di caricare armi e bagagli su una bici da turismo e con
essa raggiungere l’estremo nord dell’Europa. La vita cambia però spesso le
carte in tavola, e finì che dopo la laurea eventi familiari imprevisti – e
successivamente la ricerca niente affatto facile di un lavoro, decretarono
l’accantonamento del progetto.
Si sa anche
che il fuoco cova sotto la cenere; e una mattina di gennaio del 2010 mentre
uscivo da casa per recarmi al lavoro, osservai per un attimo il disco del sole
rosso fuoco che sorgeva su un campo agricolo imbiancato dalla neve.
Improvvisamente il pensiero andò a quel
viaggio mai realizzato; alle innumerevoli ore trascorse sulle carte geografiche
cercando vie, corridoi, per sgusciare attraverso la caotica rete stradale
europea sino alla Lapponia. Ci sarebbe stata un’altra chance ?
A dicembre del
2011 annunciai le mie dimissioni. Dodici anni di regole, divieti, norme, in un
ambiente non mio e altamente nevrotizzante, che non mi lasciava la minima
libertà, erano abbastanza. Dissi basta. L’ultimo giorno di gennaio del 2012
sarebbe stato il mio ultimo giorno di lavoro - l’ultimo nell’ingranaggio del cosiddetto
Sistema. Timbrai il cartellino e dissi addio a quel mondo che non mi
apparteneva – e al quale tutto sommato non
ero appartenuto. Il pensiero era già alla libertà: e quale libertà può
essere più grande di un viaggio in bici senza limiti di tempo stabiliti ?
Trascorsi
febbraio allenandomi; per fortuna si trattava di un inverno non troppo freddo.
La bici era pronta da tempo, era un modello ibrido assemblato da un artigiano
della provincia di Varese. Avrebbe sopportato migliaia di chilometri con un
carico di oltre quaranta chili. Avevo inoltre trascorso gli ultimi mesi
ordinando su internet tutto il materiale che mancava; i pezzi forti erano:
tenda resistente a doppio telo, sacco letto invernale e abbigliamento tecnico
per resistere a temperature prossime allo zero. Decisi che la data della
partenza sarebbe stata il 12 marzo, sei giorni dopo il mio quarantesimo
compleanno.
LA PARTENZA.
Preparai
febbrilmente i bagagli due giorni prima. Ci furono un sacco di problemi a
stipare correttamente tutto il materiale. Partire senza tenda e fornelletto rende
le cose molto più facili: un sacco di peso e di volume in meno – ma io avevo
progettato di viaggiare in assoluta indipendenza: non avrei disdegnato ostelli
o Bed & Breakfast, ma neanche accampamenti selvaggi in tenda, anche per limitare
i costi di permanenza in nazioni come la Danimarca o la Norvegia.
Partii alle 7
direttamente dalla porta di casa in direzione di Como. Era lunedì e il traffico era molto intenso. Raggiunsi Como e
sostai nella bella piazza del Duomo, scambiando due parole con un gruppo di
turisti giapponesi. Poi continuai lungo il lago, soffermandomi a osservare le
ville principesche. Nel pomeriggio raggiunsi un alberghetto economico nei
pressi di Lenno e mi fermai. Il giorno successivo avanzai verso nord in
direzione del confine con la Svizzera - finora la strada non era stata particolarmente
difficoltosa in termini di salite, ma queste iniziarono dopo Chiavenna e furono
come una sberla improvvisa. Arrivai sudato e stravolto a Villa di Chiavenna, a pochi passi dal confine, e mi fermai in un
vecchio albergo affacciato sulle ripide gole del fiume Mera. La sera cenai con
una grossa bistecca presso un bel ristorante poco distante, raggiungendolo a
piedi lungo una mulattiera che si snodava tra case da presepio. Per la prima
volta mi sentivo realmente in viaggio.
In una mattina
soleggiata raggiunsi il confine ed entrai in Svizzera. La strada era tranquilla, attraversava radi villaggi di
case di pietra, il traffico era scarso. Iniziarono i tornanti per il Passo del Maloja, di oltre 1800 metri.
Superai uno dopo l’altro una serie di tornanti che si avvolgevano come i gironi
danteschi, poi - lo confesso - due chilometri prima del valico dovetti mettere
il piede a terra. In bici procedevo infatti così piano che avrei rischiato di
perdere l’equilibrio. Superato il passo feci una breve sosta, quindi puntai in
direzione di San Moritz e Pontresina,
dove mi sarei fermato. Iniziava adesso la lunga pista del fiume Inn che mi avrebbe portato in leggera discesa sino a
Innsbruck, nel cuore asburgico d’Europa.
Per decine e
decine di chilometri mi godetti il paesaggio dell’Engadina; ad Ardez, villaggio
dalle case con le pareti dipinte, rischiai di cadere a causa di una lastra di
ghiaccio sulla strada – per fortuna l’avevo avvistata in tempo e avevo rallentato.
Mi fermai a Ramosch, a pochi passi dal confine austriaco. Raggiunsi l’Austria l’indomani mattina, seguendo
pedissequamente il corso del fiume Inn. La ciclabile era ancora per lunghi
tratti impraticabile perché coperta di neve, pertanto dovevo usare la strada
destinata ai mezzi a motore, cosa che alle volte faceva innervosire gli
autisti. Giunsi a Landeck all’ora di
pranzo, mentre c’era un mercato pubblico. Si avvicinò una bella ragazza
abbigliata in modo provocante anche se di cattivo gusto, e mi chiese “in
prestito” il mio bancomat. Ovviamente rifiutai. A breve distanza avevo scorto
con la coda dell’occhio il suo partner, che l’aveva istruita. Sembravano due
tipi dell’est; finii di mangiare il mio panino e girai al largo: con tutta la gente danarosa che andava in giro, quei due idioti avevano scelto proprio me ! Il giorno
successivo raggiunsi Innsbruck, i
cui bei palazzi in stile mitteleuropeo si specchiavano sulle acque verde
smeraldo del fiume… ho già detto quale. L’ultima notte in Austria la trascorsi
in una minuscola pensione economica gestita in modo impeccabile da un’anziana
vedova: per soli 20 euro ebbi a disposizione una camera da sogno e una
colazione indescrivibile. Che bella vita !
LA VECCHIA EUROPA.
Il viaggio
virava a nord, adesso. La Germania era vicina. Superai a fatica il passo di Maurach, oltre quattro
chilometri con pendenze dell’8%. Ripresi quindi a scendere verso un lago e mi
fermai a mangiare il mio primo strüdel presso un bar con i tavolini all’aperto,
servito da camerieri che facevano chissà perché gli altezzosi - mi guardavano
dall’alto in basso. Continuai costeggiando il Sylventeinsee, un grande lago
completamente ghiacciato, infine entrai in Germania.
Raggiunsi nel pomeriggio la bella città di Bad
Tölz, trovando alloggio presso un enorme ostello avveniristico che si
trovava ai margini di un’area sportiva.
La mattina
dell’ottavo giorno di viaggio pioveva. Indossai i sovra-pantaloni e la preziosa
giacca in goretex e avanzai sotto una pioggia mista a nevischio lungo le
colline bavaresi in direzione di Monaco.
Raggiunsi facilmente la metropoli, fresca e pulita. Niente brutti ceffi né
caos. Visitai la Marientplaz con il suo municipio gotico e gettai uno sguardo
alla Hofbrauhaus, dove si riunì per la prima volta, nel febbraio del 1920, il
partito nazionalsocialista. Puntai quindi verso Dachau, dove l’indomani mi
sarei fermato un’intera giornata.
Il campo di
concentramento di Dachau era ben
indicato da cartelli con la scritta KZ. E’ un luogo molto vasto, aperto; delle
numerose baracche originariamente presenti, ne rimanevano solo due. Visitai la
mostra fotografica, i forni crematori, il locale docce e restai soprattutto
colpito da una famiglia di turchi che andavano in giro sghignazzando
apertamente – sembrava che fossero al luna park. Anche le numerose scolaresche
facevano lo stesso: urla, battute e risate. A onor del vero devo dire che le
scolaresche italiane erano appena un po’ più educate. Me ne andai disgustato e
ritornai all’ostello di Dachau, un meraviglioso edificio disegnato da valenti
architetti e con una fantastica cucina.
Da Dachau
raggiunsi Donauwörth navigando in un
paesaggio di colline verdi non rovinate da capannoni o industrie. A pranzo
mangiai qualcosa presso un campo agricolo; ascoltai Jackson Browne e mi tolsi
le scarpe, mi sentii davvero libero e felice. Nel pomeriggio incrociai il fiume Danubio, che qui era ancora
stretto e poco maestoso. Il giorno successivo imboccai un’altra ciclabile,
quella del fiume Tauer, che scorre nella famosa Romantichestrasse, quindi raggiunsi Gaukönigshofen, un piccolo
borgo rurale al centro di un’immensa campagna coltivata a seminativo. Il 13°
giorno di viaggio oltrepassai la città universitaria di Wurzburg, quindi chiesi il permesso di piantare la tenda presso una
fattoria-ristorante. Il proprietario mi negò il permesso invocando banali scuse
e sollevando la disapprovazione generale; me ne andai a testa alta e piantai la
tenda di prepotenza in un bosco occultato alla vista, meno di 300 metri dopo.
Dopo la prima
notte in tenda raggiunsi la bella cittadina di Fulda, dalle case con le travi di legno a vista sulle facciate.
Erano le vere case tedesche che si vedono nelle fiabe, le case che avevo sempre
sognato di vedere. Inoltre avevo raggiunto un primo traguardo: poco prima di
Fulda il contachilometri aveva segnato la cifra 1000. Lasciata Fulda proseguii
lungo l’omonimo fiume sino a Melsüngen,
altra adorabile cittadina germanica che esplorai a lungo con l’obiettivo. I
giorni successivi avanzai sempre verso nord sino alla bassa Sassonia, sferzata dal vento e caratterizzata da umidi
brughiere. Il paesaggio era etereo, in qualche modo affascinante, ma spesso la visione
che abbiamo è deformata dall’occhio del vacanziero: vivere a lungo termine in
un determinato posto è tutt’altra cosa.
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Germania centrale, le belle case di Melsungen |
Il 20° giorno
raggiunsi Brema, visitandone la
grande piazza con la cattedrale, la statua alta 13 metri del cavaliere Rolando
e ovviamente, il monumento ai tre musicanti, forse ancora più famoso ! Pedalai per decine e decine di chilometri
lungo rettilinei infiniti sotto una pioggia leggera, spesso imprecando contro
un forte vento contrario. Attorno a me solo pianura, betulle e fattorie, sino
alla città di Stade, affacciata
sull’Elba – vera perla di città dotata di un sistema di canali simile a
Venezia. Il giorno successivo presi un ferry
per attraversare l’Elba, quindi proseguii il viaggio verso Fehmarn, con sole e vento finalmente a favore. Per la prima volta
vedevo il mare. La Danimarca era vicina – l’avrei raggiunta l’indomani. Non mi
dispiaceva passare un’ultima notte in Germania, una nazione meravigliosa, forse
sovrappopolata e un po’ ossessionata da regole e divieti, ma pur sempre un
paese civile, affascinante e dall’altissimo rapporto qualità-prezzo.
Tappa 25: “Cielo
grigio che non promette niente di buono e vento contrario”. 45 minuti di
traghetto su un mare scuro e poco invitante mi portarono in terra danese.
Combattei per 80 chilometri contro un vento sempre più gelido lungo colline
spoglie sino a Vørdingborg, dove
trovai l’ostello chiuso. Una coppia di coniugi a cui avevo chiesto indicazioni
si offrì spontaneamente di ospitarmi in casa loro. Passammo la serata bevendo
vino sudafricano e parlando dei nostri paesi. Il commiato, il mattino seguente,
fu davvero toccante. Pedalai lungo la costa orientale danese facendo tappa a Køge (pronuncia ‘Kiuef’), presso un
campeggio affacciato su una spiaggia ampia e sabbiosa; il giorno successivo
percorsi altri 54 chilometri e guadagnai Copenhagen.
Visitai la capitale sotto la pioggia, fermandomi a fotografare la leggendaria
Sirenetta.
VERSO NORD.
Da Helsingör
presi il traghetto per la Svezia.
Ero molto emozionato; il gioco si faceva serio.
Sbarcato a Helsingborg, acquistai dettagliate e costose carte
geografiche presso l’ufficio turistico, quindi iniziai a pedalare per 70
chilometri sino a Mörarp, piccolo
borgo agricolo. Chiesi di piantare la tenda presso un’abitazione, e la risposta
fu positiva. Moglie e marito mi offrirono anche una doccia calda, una discreta
cena e un’ottima birra svedese. La sera mi addormentai col suono delle gocce di
pioggia che battevano sul telo della tenda. La Svezia mi piaceva. Il paesaggio
era piacevole anche con il cielo grigio e il brutto tempo, le salite erano
affrontabili, ma soprattutto il traffico era ovunque molto scarso. A Bjärnum chiesi di piantare la tenda
presso una fattoria. La donna, divorziata, mi offrì di dormire in una casetta
di legno destinata agli ospiti. Lo stesso avvenne il giorno successivo, in
località Hullingsved. Il 13 aprile, a poco più di un mese dall’inizio del viaggio,
raggiunsi Växjö e mi sistemai in un
ostello di legno di fronte a un placido lago. Il tempo si fece freddo ma
soleggiato, continuai a pedalare tra campagne e fattorie. La Svezia mi
ammaliava, sembrava il paese delle favole. Mi fermavo per pranzo a mangiare
presso i cimiteri; può sembrare strano, ma erano veri e propri giardini verdi e
curati, per niente lugubri. Si trovavano vicino alle chiese principali dei
villaggi, emanavano pace e sicurezza. La sera poi raggiungevo una fattoria e
chiedevo gentilmente di potermi accampare – nel 90% dei casi i proprietari non
rifiutavano.
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A Morarp, prima giornata in Svezia. |
A Tranås, poco distante dal grande lago Vättern,
fui ospite in casa di due anziani adorabili – non capivano una virgola di
inglese eppure si fecero in quattro per agevolarmi. A Latorps fui ospite in una casetta di legno ad uso sauna; il vicino,
saputo della mia presenza, venne a trovarmi e mi raccontò a grandi linee la sua
vita, la perdita della sua compagna, poi mi offrì un contributo in denaro per
il mio viaggio, che rifiutai gentilmente. Ci abbracciammo commossi. A Nora feci il backup delle fotografie presso lo studio di un fotografo che accese
lo stereo a tutto volume facendo suonare le note dell’inno nazionale italiano
in mio onore. Ci alzammo in piedi e cantammo insieme tra le facce esterrefatte
dei clienti.
Arrivò
finalmente la neve. Ne avevo sentito parlare da giorni e me la beccai dal primo
all’ultimo minuto della 37^ tappa da Kopparberg a Fallet. Trovai rifugio per la
notte piantando la tenda sotto un riparo di legno, una specie di tettoia con
tre pareti. Il giorno successivo raggiunsi Borlänge,
centro minerario legato all’estrazione del rame, fermandomi in ostello – calda oasi
dove asciugai tutto il materiale inzuppato. Nello stesso ostello fui
intervistato da due giovani giornalisti per un giornale locale. La ragazza che
mi faceva le domande era una venticinquenne che sembrava un angelo pronto per
l’annunciazione – non avevo mai visto in vita mia una creatura femminile così
bella. La strada si fece sempre più solitaria man mano che avanzavo verso nord
– a Kvarnberg, minuscolo atollo di
poche case di legno, dormii in casa di un’anziana ultraottantenne. Avevo paura
ad accamparmi in tenda per il pericolo degli orsi. A Sveg, piccolo centro dalle case invariabilmente gialle o rosse,
dedicai un’intera giornata a oziare.
Il 50° giorno
di viaggio, al km 3487, giunsi a un enorme cartello si legno con la scritta
Lappland: finalmente ero in Lapponia,
regno delle foreste di conifere, betulle e renne. Avvistai infatti un branco
pochi minuti dopo. Mi accampai sulla neve presso un fattoria a poca distanza
dalla cittadina di Dorotea. Da qui
pedalai per centinaia di chilometri letteralmente nel nulla; i centri abitati
si fecero sempre più scarsi, dovevo calcolare bene tempi e distanze. Il traffico
era ridotto ai minimi termini - ogni tanto venivo sorpassato a debita distanza
da enormi tir che trasportavano legname; rispondevo suonando il campanello di Littoria, la mia bici, con la quale
parlavo spesso per ingannare la solitudine.
Fu in quest’atmosfera
surreale ed emozionante che raggiunsi finalmente l’immaginaria linea del Circolo Polare Artico, a quasi 4000 km
da casa. Seguirono colline, foreste e laghi ghiacciati; oltrepassai i centri
minerari di Gällivare e Svappavaara, infine mi fermai a Kiruna, il più grande centro della
Lapponia svedese, città legata all’estrazione del ferro.
Mi fermai un
giorno a Kiruna, fotografandone la bella chiesa di legno dallo stile russo
costruita agli inizi del 1900, ma anche il paesaggio spettrale della miniera.
Lasciata la città, feci rotta verso il grande lago Torneträsk, ghiacciato e circondato da montagne innevate. La
Svezia finiva qui e l’avevo percorsa tutta da sud a nord, senza scorciatoie. Un
paese fantastico e accogliente in cui, davvero, mi piacerebbe ritornare.
Chilometri di
strada tormentata in un paesaggio innevato mi condussero finalmente al confine
con la Norvegia, annunciato da un
semplice cartello blu. Seguirono altre brevi salite, quindi planai velocemente
verso la costa. In poco tempo, perdendo quota tornante dopo tornante, arrivai
sino al mare, a nord del fiordo di Narvik.
Il clima era tutt’altra cosa, tiepido e temperato – un altro mondo rispetto
alla gelida Svezia. La E10, strada costiera, era piuttosto trafficata. In breve
mi diressi verso arterie secondarie finendo per accamparmi in tenda presso Bjerkvik, di fronte al mare su cui si
specchiavano montagne innevate. A Sølvek,
il giorno dopo, feci lo stesso – mi accampai presso una rimessa per barche semi
abbandonata. Il proprietario, avvertito dai vicini, arrivò e mi sorprese sul
posto. Non disse nulla e andò via. Tornò dopo dieci minuti con un carico di
legna per consentirmi di accendere un fuoco. Fu una bella serata.
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Serata in tenda a Bjerkvik, su un fiordo norvegese. |
Pedalai sempre
verso nord sino all’isola di Andøya,
che raggiunsi con un traghetto. Prima di arrivare ad Andenes, avamposto sul mare, fui spinto da una vera e propria
bufera con venti micidiali provenienti da sud – se li avessi avuti contro non
sarei mai arrivato in così poco tempo. Mi rifugiai in un edificio che fungeva
da alloggio per operai, nei pressi del porto, occupando abusivamente una stanza
libera al primo piano. Mi addormentai ascoltando il vento che faceva tremare
l’intero edificio. A Risøyhamn,
minuscolo villaggio di pescatori, un ex impiegato delle poste mi procurò una
sistemazione per la notte in un Lavvu,
un rifugio lappone a forma di piramide interamente costruito in legno. Alle 4
del mattino successivo mi imbarcai per Tromsø
sulla famosa motonave Hurtigruten. Da Tromsø, che visitai brevemente, raggiunsi
Skibotn, il punto più settentrionale
del viaggio. In molti credevano che lo scopo di questo tour fosse invece
raggiungere Capo Nord, meta di massa che non mi attirava per nulla.
Così feci
fuori anche la Norvegia. In una giornata scura e piovosa affrontai la salita
verso il confine finlandese; il paesaggio era brullo e solitario; prima cascate
e torrenti, poi pietraie. Passai il confine e proseguii per alcuni chilometri
sino a trovare riparo all’interno di una piccola legnaia sul lago Kilpisjärvi ghiacciato. Il fuoco
che accesi quella sera, con legna di betulla, fu uno dei più entusiasmanti: ero
e mi sentivo nel pieno dell’avventura.
La Finlandia
del nord era una terra solitaria e ventosa. Da settimane non c’era quasi più
differenza tra il giorno e la notte; in pratica il sole non tramontava mai. Tra
le due e le quattro del mattino c’era quel chiarore che precede l’alba. Tra
renne e laghi discesi il corso del fiume Muonio sino al piccolo villaggio di Karesuvanto, sistemandomi nella cabina di
legno di un campeggio. A Lappea una
donna mi negò il permesso di accamparmi ancora prima che glielo avessi chiesto;
a Saarensilta un’anziana a cui avevo
chiesto gentilmente un litro d’acqua per la borraccia mi sbattè la porta in
faccia. Cominciai ad averne abbastanza della Finlandia, la trovavo avvilente
dal punto di vista umano e paesaggistico – inoltre era anche un paese sporco;
ovunque trovavo immondizia. Un conto è credere ai luoghi comuni: pulizia,
civiltà ecc. -un altro conto è vedere
con i propri occhi. Mi sorbii ancora
questo deludente paese sino a Oulu, vantata
come città universitaria e cosmopolita, con un “caratteristico mercato all’aperto”:
era invece un piccolo centro anonimo con le piste ciclabili ricavate
semplicemente dai marciapiedi e le scritte in finlandese, indecifrabili. Quanto
al mercato, faceva pena: un’accozzaglia di bancarelle misere da cui si spargeva
un disgustoso odore di fritto. Il pensiero andò ai mercati della Sicilia – in confronto
erano di un’opulenza smodata. Spesso noi italiani soffriamo di esterofilìa
cronica…
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Lungo le infinite strade della Lapponia finlandese. |
EPILOGO.
Ed eccomi
infine a Helsinki. La capitale
finlandese mi apparve come una metropoli senza troppe pretese. Poco romantica e
con molte influenze russe nell’architettura; una città né bella né brutta, né
carne né pesce. L’addetta alla reception dell’ostello mi indicò la strada per
raggiungere facilmente in bici
l’aeroporto. Io di queste indicazioni “facili” ne dubitavo parecchio, infatti
dopo pochi chilometri mi ritrovai in un’autentica superstrada dove camionisti e
automobilisti facevano a gara nell’urlarmi di andarmene fuori dai piedi. A
fatica mi tirai fuori da quell’incubo ed entrai nell’edificio dell’aeroporto,
dove un costoso volo mi avrebbe portato in Italia, a Malpensa.
Il viaggio
ormai era quasi alla fine. Uscii dall’aeroporto e annusai l’aria. Era più calda
e molto umida. Rimontai la bici e mi diressi verso Vizzola Ticino , rifugiandomi all’interno di un opificio
abbandonato, giudicato sicuro. Il suono delle campane mi ricordò che mi trovavo
di nuovo in Italia, a casa mia, e la cosa non mi dispiaceva. Montai per
l’ultima volta la tenda, che mi salvò dalle zanzare. Era la sera del 4 giugno,
l’ultima sera del viaggio, che emozione ! Mi era rimasto ben poco da mangiare ma non mi
importava. Nel bene e nel male avevo attraversato tutta l’Europa, realizzando
quel vecchio sogno. Avevo visto laghi, montagne, canali, città, fiumi, colline,
boschi; avevo incontrato persone ospitali e meravigliose che mi avevano aperto
la loro porta. Avevo provato a me stesso che con la volontà si fanno cose
impensabili ed ero contento che tutto fosse finito bene.
La bicicletta
giaceva per terra, anche lei sembrava esausta. Sul manubrio, il contachilometri
segnava 5511 km. In totale, avevo
attraversato sette nazioni.
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Vizzola Ticino, Lombardia. L'ultima notte del viaggio, in un opificio abbandonato. |