Il lavorìo mentale che facciamo sul passato trasforma faticose ed estenuanti vicende in episodi-mito della nostra vita
12 marzo 2013. Un anno dalla partenza del grande viaggio in bicicletta verso la Lapponia. La memoria va alla strada, ai boschi, alla gente incontrata. Certe pasticcerie in Germania dove mi rifornivo di dolci - i laghi del grande nord - gli animali - il fascino della solitudine, quella indescrivibile sensazione del "sentirsi soli imbarcati in un'avventura".
Ecco, voglio tentare di descrivere proprio questa sensazione.
La mattina della partenza si presentò con un cielo lattiginoso, ma la giornata non prometteva pioggia. Stranamente non avevo passato la notte insonne come in altre occasioni. Uscii con la bici carica come un mulo alle sette del mattino per non farmi intercettare da eventuali vicini. Volevo partire in sordina, non avevo voglia di sollevare curiosità o rispondere a domande. Dopo una sosta alla piazza centrale di Turate dove scattai una brutta foto, mi diressi verso il piccolo borgo di Castelnuovo Bozzente - era un simbolico omaggio al paesino dove innumerevoli volte mi ero recato in bici da corsa. Raggiunsi Como alle 11 scansando il traffico pesante e inviperito tipico della Lombardia. Nella piazza di Como scambiai due parole con tre turisti giapponesi, poi ripresi la bici e andai avanti qualche chilometro per mangiare un panino - il primo di tanti - su una piazzola tranquilla di fronte al lago.
Ero come ipnotizzato - la bici andava avanti da sola. Non mi ero reso effettivamente conto che il viaggio era iniziato. Mi lasciavo per così dire guidare dall'onda degli eventi assistendovi da spettatore. Nel primo pomeriggio il traffico diminuì e ne approfittai per raggiungere Lenno e il piccolo albergo a 1 stella dove avrei passato la notte. Si sollevò un vento piuttosto freddo e fui contento di non dover accamparmi.
Il secondo giorno costeggiai il lago di Como fotografandone le numerose ville affacciate sulle acque. Indossai il giubbotto rifrangente e accesi la luce posteriore perchè c'erano numerose gallerie da attraversare. In una di queste un imbecille con un suv mi sfiorò a velocità folle suonando il clacson - forse l'idiota non mi aveva visto dato che procedeva a 140 all'ora. Evitai la pericolosa statale 36 e deviai a sinistra verso il Piano di Chiavenna, pedalando su piste ciclabili lungo l'argine di un fiume, quindi sostai presso il bar di un minuscolo paesino di montagna. Le salite arrivarono nel pomeriggio come una sberla violenta. Da Chiavenna a Villa di Chiavenna sono 300 metri di dislivello in neanche otto chilometri. Avevo finito di scherzare e me ne resi conto all'improvviso. Volevo concludere questa seconda giornata ancora in territorio italiano e decisi di fermarmi a Ponteggia, a pochi chilometri dal confine con la Svizzera.
Arrivai semidistrutto e sudato a un vecchio albergo. La bici venne custodita sotto chiave in un sotterraneo umidissimo confinante con un antico lavatoio. La stanza aveva una finestra che affacciava direttamente a strapiombo sulla gola del fiume Mera. Il letto era del tipo con la rete anni '50, quella che si piega a U sotto il peso del corpo - sapevo che avrei dormito male e così fu.
Mi indicarono un locale appena fuori del paese dove si serviva la cena. Per raggiungerlo si doveva salire a piedi per una mulattiera scarsamente illuminata che si snodava tra case da presepio. Erano povere case di montagna, alcune restaurate altre in disuso. Da dietro le costruzioni mi giungeva l'odore del bosco di castagni. Al locale mi feci servire una bistecca colossale e una birra che mi rinfrancarono. Erano le dieci della sera quando uscii e scesi a piedi dalla mulattiera per fare ritorno all'albergo. Tra quelle case umide con i tetti di pietra, in quel paese di confine, da solo e nella semioscurità, percepii d'un colpo la sensazione di essere veramente in viaggio, e la cosa mi galvanizzò.
Pochi chilometri ancora e il territorio italiano sarebbe finito. L'indomani sarebbe stata Svizzera, poi Val Bregaglia, poi Passo del Maloja, poi la valle dell'Inn e l'interminabile discesa nel cuore asburgico d'Europa, sino a Innsbruk. Poi...
...il pensiero della Lapponia, della Svezia, era ancora lontano. Era come un miraggio, qualcosa di nebuloso che si affacciava nella mia mente. Non era tempo di pensarci.
Ma ero in viaggio.