Il viaggio in bicicletta fatto in Sardegna nell'estate del 1991, all'età di diciannove anni, rimane ancora il più bello della mia vita. In questo racconto ne rievoco una delle pagine più affascinanti: la fermata nel villaggio fantasma di Ingurtosu, tra rovine di miniere ed edifici abbandonati, dove ebbi l'onore di conoscere e venire ospitato da gente meravigliosa.
Tempo di lettura: 6 minuti.
Il 12 Agosto 1991, dopo oltre due settimane di viaggio
attraverso la Sardegna, le ruote della bici iniziarono a girare su strade
sterrate e polverose, in un paesaggio tutto nuovo. Avevo già visto scogliere, nuraghi,
mandrie, paesaggi brulli e desolati; ero stato ospitato da gente meravigliosa
che mi aveva aperto la porta. Ma era adesso, in prossimità delle miniere della
costa occidentale, che l'avventura sui pedali entrava davvero nel vivo.
Dopo aver lasciato Marina di Arbus, ultimo avamposto “civilizzato”,
attraversai una specie di deserto sabbioso solcato da un torrente, il Rio Piscinas.
I rari turisti mi videro guadare il corso d’acqua a piedi scalzi, sorreggendo
la bici e i suoi bagagli. Poco oltre giunsi alle rovine della laverìa di
Naracauli, consistente in una serie di edifici industriali consumati dal tempo,
dove il minerale veniva liberato dalle scorie. Il paesaggio delle miniere mi
affascinava, esercitava su di me un’attrazione irresistibile. Mi affacciai a
gallerie chiuse da cancelli arrugginiti, respirandone l’aria umida e
misteriosa, esplorai altri edifici abbandonati aggirandomi estasiato per l'intera mattina tra rottami e rovine
di un passato minerario.
La strada in terra battuta mi portò su a Ingurtosu, il
villaggio fantasma. Scattai una foto all’ingresso del paese, poi mi inoltrai
verso il “centro”. Questo consisteva essenzialmente di un ospedale, di un minuscolo ufficio postale, di un
edificio con l’insegna “Sali e Tabacchi” affacciato su un piccolo spiazzo e
nulla di più. Un grande albero di gelso proiettava la sua ombra sulla piazzetta. Mangiai
qualcosa sulle gradinate mezze rotte dell’ex ospedale e ne esplorai gli
stanzoni, ingombri di vecchie riviste, scartoffie e innumerevoli radiografie. Un’ora
prima erano passati altri quattro ciclisti in viaggio, i quali dopo aver
sostato qualche minuto proseguirono verso la costa, sostenendo che a Ingurtosu
non c’era nulla di interessante.
Io rimasi, deciso a trascorrere la notte nel villaggio. Alle
16 bussai alla porta della Tabaccheria. Rispose una donna da una
finestra al primo piano. In breve, domandando un posto dove collocare la tenda,
fui invitato a salire in casa, dove conobbi i suoi due figli con i quali feci
subito amicizia. Per quella sera fui ospite a cena in casa loro, quindi mi
sarei accampato nei pressi di un edificio abbandonato, a breve distanza.
Conobbi anche il padre, un ex minatore che aveva trascorso
la vita a lavorare nel buio delle gallerie e dei pozzi di Ingurtosu, e durante
la pensione aveva gestito la Tabaccheria, fintantoché le miniere erano ancora
funzionanti e il paese popolato. Era un tipo magro, di poche parole. Quando mi
guardava, mi metteva soggezione.
Trascorsi a Ingurtosu tutta la giornata successiva, in
compagnia dei due figli S. e R. che mi fecero visitare qualche miniera in tutta
sicurezza. Mi avvertirono dei pericoli disseminati nel territorio, ad esempio
di pozzi di aerazione che si aprivano improvvisamente sotto i piedi, mal
coperti da tavole di legno logore. Alcuni pozzi minerari verticali, dissero,
erano tremendamente profondi, arrivavano sino al livello del mare. Non
mancarono di menzionare gli innumerevoli incidenti legati a quell’attività,
appresi dai racconti di loro padre. La
seconda sera fui ospitato ancora nel villaggio; dormii in un vero letto, nella casa
di un giovane impiegato del minuscolo quanto deserto ufficio postale, anche lui
appassionato di sport e bicicletta.
Il mattino successivo arrivò il momento dei saluti; mi
congedai da tutti, caricai i bagagli sulla bici e salii in sella per andarmene.
Venni fermato dall’anziano ex minatore, sulla soglia della Tabaccheria. L’uomo
iniziò a scavare per terra, in un punto preciso segnalato da un piccolo pezzo
di legno. Tirò fuori un minerale, una pietra luccicante. Nel donarmelo, mi
disse che si trattava di Piombo argentifero; fu lieto di posare insieme a me
per una foto con l’autoscatto, poi rientrò a casa.
Iniziai a pedalare verso il mare. In breve il piccolo paese silenzioso
scomparve alla vista; le sue miniere, gli edifici abbandonati, la piazzetta,
tutto ciò che avevo visto e vissuto in quel giorno di sosta, lasciarono il
posto alle montagne costiere e infine al mare graffiato da un forte vento di
Maestrale. Il viaggio continuava; un’altra settimana sui pedali e avrei
raggiunto Cagliari.
Tornai un’altra volta a Ingurtosu nel Maggio del 2002, e
cercai quella famiglia che mi aveva ospitato. Uno dei due figli passeggiava
sulla piazza deserta, mi riconobbe e si ricordò di me. Gli donai copia della
foto con suo padre, ricavata dalla diapositiva che avevo scattato quella
mattina di undici anni fa. Mi informò che l’ex minatore, suo padre, era
deceduto alcuni anni addietro.
Il villaggio non era più silenzioso come quando ero passato
io; era animato da ruspe rumorose e pieno di cantieri; l’ospedale era stato
ristrutturato, la strada pure. Erano arrivati dei fondi per la creazione del
parco minerario, e li stavano impiegando. Ma nulla sarebbe stato più come
prima. Come al tempo delle miniere, intendo dire.
Ricordo la fermata a
Ingurtosu, e la sua gente, tra le più belle pagine di viaggio che ho scritto, indelebili, nella mia vita.
E con questo m'hai fatto venire voglia di scrivere anch'io un ricordo di viaggio.
RispondiEliminaPerò ai tempi non facevo foto.
Forse ne ho un paio, cartacee, fatte da amici. Stasera le cerco e nei prossimi giorni scrivo qualcosa.
Sarò lieto di leggerlo.
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