mercoledì 25 gennaio 2012

La mia gavetta


Luglio 2000. Orrenda foto scattata durante il turno di notte a fianco della calandra.
Dietro l'obiettivo c'era A., l'operaio defunto.


All’inizio di ogni attività lavorativa è previsto un periodo più o meno lungo di gavetta. Alcuni fortunati gavetta non ne fanno perché si trovano la strada spianata - e io trovo la cosa diseducativa; altri la fanno moderata, quasi indolore. Io la mia gavetta l’ho fatta, si è protratta per due anni ed è stata molto dura. Ne vado fiero.
Immediatamente dopo la laurea iniziai a cercare un posto nel settore chimico - era il 1999. Bussai a innumerevoli porte e lavoro non ne trovai perché a quell’epoca le aziende preferivano i periti chimici, più manipolabili e “versati sul piano pratico”, questo è quello che dicevano le grandi menti che mi intervistavano nei vari colloqui andati tutti a vuoto. Poichè dovevo lavorare e non avevo tempo per pensare a fare il classico viaggio-premio post laurea, mi accontentai di un posto di operaio bobinatore a calandra presso una ditta che produceva film in pvc, cioè tovaglie di plastica. Il lavoro era quanto di più robotizzato si potesse immaginare, inoltre si svolgeva su tre turni a ciclo continuo: mattina dalle 6 alle 14, pomeriggio dalle 14 alle 22 e notte dalle 22 alle 6 del mattino. Una vera meraviglia. Ogni giorno ne succedeva una, ogni minuto si poteva avere un incidente, poiché occorreva agire rapidamente usando lame a disco e coltelli affilati, movimentando pesi anche non indifferenti, senza alcuna interruzione e con la comunicazione verbale resa impossibile dal fracasso assordante prodotto dalla calandra, enorme mostro che si nutriva di pvc fluido e dopo averlo plasmato attraverso innumerevoli rulli, sfornava il rotolino o il rotolone di prodotto finito dal lato opposto dove ci trovavamo io e l’altro addetto, i bobinatori per l’appunto. A gennaio del 2000 stavo per rimetterci un dito della mano sinistra. Prendevo ordini (urlati) da gente che aveva il diploma di scuola media, e questa cosa, per quanto possa sembrare classista, mi umiliava e mi infastidiva: avevo studiato all’università per sei anni e questo era il risultato: un capoturno tamarro calabrese che a stento conosceva la lingua italiana urlava a me di muovermi, di fare in fretta. Lo stipendio era discreto grazie a quei turni snervanti – ma non si vive di solo pane. L’unico acculturato era il perito chimico che si occupava delle mescole in pvc; era giovane, corpulento e belloccio – faceva tutto di fretta, muovendosi schizofrenicamente da una parte all’altra del capannone. Scambiai due parole con lui e quando gli dissi che ero laureato in chimica emise uno sbuffo divertito come a dire: e che ci fai qui ? Quindi scappò via senza salutare.
Tutto sommato però quel periodo non fu del tutto sgradevole.  Benchè fossi “un corpo estraneo” andai d’accordo con tutti; lavorai anche insieme a due senegalesi: uno era insopportabile, un vero campione di presunzione e malcelata furbizia; l’altro era taciturno ma molto più interessante come persona; rifletteva molto, come me aveva progetti, idee. Molte di queste erano valide e costruttive. Fu un piacere lavorare con lui. Mi piacerebbe sapere che fine ha fatto.
Ricordo poi una spaghettata alle tre del mattino, guardando film su una televisione in bianco e nero che veniva tirata fuori solo di notte, quando i dirigenti non c'erano. Fuori nevicava e io ero lì insieme a quella gente. Fu una notte surreale e strana, fra le tante passate a movimentare chilometri di rotoli di plastica.
Nell’ultimo periodo lavorai con A., figlio di un capo turno. Era di un paese vicino, ed era la persona più invidiosa che avessi mai incontrato nella mia vita. Avido e sospettoso, incarognito con se stesso e il mondo, sempre pronto a provocare e a reagire per presunte mancanze di rispetto. Odiava visceralmente quel lavoro da operaio ma non faceva nulla per cambiarlo. Si vantava di andare con molte donne; non che fosse particolarmente bello, ma ci sapeva fare. Un giorno era particolarmente avvelenato e mi disse che se io mi trovavo lì con lui in quell’inferno era perché come laureato non valevo nulla. Dopo qualche mese parve ammorbidirsi; alla fine iniziò a sorridere, fece amicizia e ci sentimmo con piacere anche dopo che finalmente diedi le dimissioni da quel lavoro che non era certo fatto su misura per me.
Fu da altri colleghi che seppi che A. due anni dopo morì in un incidente stradale; poiché faceva tutto di corsa, istericamente, si schiantò con la motocicletta a folle velocità contro una fila di auto ferme ad un’uscita autostradale. Morì imprecando e bestemmiando, attribuendo tutta la colpa agli altri.
Il commento di molti ex colleghi fu che “in fondo era una testa di cazzo”. A me invece dispiacque; forse era una testa di cazzo, ma in fondo la sua irrequietezza era un po’ anche la mia. Non aveva avuto pazienza. Era troppo infelice, troppo scontento della sua vita, e il destino alla fine lo accontentò a modo suo.

E' proprio una strana cosa, il destino.

1 commento:

  1. senza nessuna presunzione o forma di classismo (io ho passato settimane a portare cariole di san pietrini al posatore sotto il sole rovente per guadagnare qualche soldo per l'estate)

    mi sembra una gavetta un pò forte per un laureato, soprattutto negli anni 2000...direi un un impatto un pò distorto col mondo del lavoro

    in ogni caso ognuno conosce la proria storia e sa perchè ha fatto le sue scelte, soprattutto se hanno condotto a quello che sei riuscito ad ottenere!

    RispondiElimina