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Era un
progetto che rimuginavo da tanto tempo, quello di percorrere a piedi una delle
tante ferrovie abbandonate disperse nel nulla dell’entroterra siciliano. Questa
era stata costruita agli inizi del 1900, e lasciata in disuso quarant’anni dopo,
alla vigilia della guerra. Da allora nessuno se n’era più curato, meno che mai
in tempi di crisi come quelli odierni. Rotaie e traversine erano state
smantellate da tempo; rimaneva solo il vecchio tracciato, la cosiddetta “area
di sedime”.
Di quel tratto
ferroviario avevo attinto con avidità notizie dettagliate da un sito web curato
da un settantenne di Palermo che minuziosamente, metodicamente e con infinita
pazienza e passione ne aveva ricostruito la storia, il tracciato e perfino
l’aveva per qualche breve tratto percorsa lui stesso a piedi, documentandola
con fotografie e didascalie. Valerio, si chiamava. Lo avevo contattato per email, poi ci incontrammo di persona nella sua città
giusto il giorno prima della mia “avventura”, ed era stato felice di conoscermi
e lusingato di apprendere che mi sarei recato sul posto, per quell’escursione
di due giorni.
Disse un po’
rammaricandosi che il suo sito web riceveva pochissime visite, trattandosi di
un argomento ignorato dai più: il genere “abandoned”.
Io invece ero affascinato da una vita da borghi e ferrovie abbandonate, erano
il mio “pane” da sempre e non vedevo l’ora di percorrere a piedi questa tratta.
Dopo un lungo
viaggio in auto, raggiunsi il centro della Sicilia. Era ottobre e la luce era
splendida, perfetta per le foto. L’autunno stentava ad affermarsi, ma l’aria
era fresca e le giornate visibilmente più corte. Abbandonai l’auto presso una
stazione di servizio e mi incamminai a piedi con uno zaino molto pesante,
contenente anche il necessario per accamparmi: mi aspettavano quasi trenta
chilometri di strada lungo il sedime
ferroviario non facilmente praticabile. Sapevo
che sterpaglie, arbusti, crolli e smottamenti, tratti franati e interruzioni
che si erano succeduti in settant’anni non mi avrebbero reso la vita facile -
Portavo con me
copia delle pagine web di Valerio, più mappe e sovrapposizioni cartografiche
reperite su Internet. Intercettai subito l’ex ferrovia grazie alle dritte di
Valerio e a una fila di pali telefonici di legno ormai privi di cavo che si
susseguivano all’infinito, paralleli alla linea. Guardai l’ora, erano le 9 del
mattino, e iniziai a camminare. Come sempre, ci volle parecchio tempo perché la
schiena si abituasse al fardello – e notai strada facendo, che il paesaggio era
piuttosto monotono, non era come mi aspettavo. Dopo una sosta per mangiare
qualcosa, indugiai un’ora nei pressi di un viadotto a tre luci semi-crollato e
proseguii per tutto il pomeriggio, finendo per accamparmi nei pressi di una
piccola stazione invasa dai rovi, anch’essa ovviamente in disuso. Per quel
primo giorno era abbastanza, avevo percorso più di venti chilometri.
Il mattino
seguente ripresi un po’ di malavoglia il cammino lungo l’ex ferrovia. Il
tracciato adesso era in leggera salita e compiva delle lunghe curve ad “S”
attraverso colline spoglie; poi iniziarono le gallerie. La prima di queste
aveva l’ingresso sbarrato da un cancello metallico, e dovetti perdere mezz’ora
per aggirarla, tra rovi e altri ostacoli, imprecando. La seconda era aperta e
percorribile – dall’ingresso scorgevo la luce dell’uscita – e in effetti finii
per percorrerla piuttosto velocemente, anzi a gambe levate, dato che un enorme
cane bianco da pastore mi aveva avvistato a cento metri di distanza e si era
preso la briga di inseguirmi.
All’uscita
della galleria, ancora sconvolto per la corsa e con l’adrenalina in corpo per
la paura, impiegai un po’ ad accorgermi che il paesaggio era cambiato: il
tracciato ferroviario esisteva ed era anzi quasi completo – degli operai
stavano fissando con grossi bulloni le traversine di legno ai binari; i pali
telefonici sembravano meno vecchi, nuovi addirittura, ed erano provvisti di
cavo; ma era il cielo che aveva qualcosa di strano: la luce non poteva essere
quella di fine ottobre, era una luce abbacinante, estiva. Anche le colline tutt’attorno
erano gialle, di seminativo alto e maturo -
Avanzai e
salutai gli uomini al lavoro, che risposero con un cenno della testa. Poco
lontano giaceva un minuscolo borgo sulla sommità di una collina ventosa –
doveva essere il villaggio destinato ad ospitare gli operai nel corso dei
lavori. Lo raggiunsi e ci trovai solo donne, affaccendate in vari mestieri.
Avevano vestiti stranamente pesanti e di foggia vecchia, polverosa. Il
villaggio aveva una disposizione a croce, con una piazzetta centrale in terra
battuta. Una ragazza mi salutò e mi chiese da dove venivo –
-
“Vengo dalla galleria, cioè ho percorso a piedi
tutta l’ex ferrovia”, le risposi.
-
“Non sei il primo, alcuni di quelli che escono
da quella galleria, finiscono per rimanere qui”.
-
“Qui dove ? dove siamo esattamente ?”
-
“Siamo a Borgo 29. Si chiama così perché la
ferrovia è lunga 29 chilometri, e questo è l’ultimo”.
-
“Ma la ferrovia non è in disuso da più di settant’anni
? Non è un’ex ferrovia?”
-
“Ex ? che vuol dire ‘ex’ ?”
-
“Vuol dire che è una ferrovia abbandonata”,
spiegai -
Mi guardò
perplessa, aveva gli occhi chiari, allegri, ma nelle labbra, sottili, c’era un
accenno di tristezza, come quella nota appena accennata di avvizzito che si
riscontra nei fiori appena un attimo dopo che sono stati raccolti. Ci guardammo
negli occhi senza dire più niente, poi una donna in lontananza la chiamò, intimandole di
far presto.
Prima di sparire
mi regalò due piccole pere verdi, che io, non sapendo cosa farne, lì sul
momento cacciai in tasca. Me ne andai anch’io perché non c’era molto da fare o
da vedere, a Borgo 29, e le altre donne del villaggio mi fissavano con
curiosità ma sgusciavano via se appena accennavo un saluto. Peccato, mi dissi, almeno mi avesse detto il
suo nome, quella ragazza -
Era ormai
mezzogiorno e gli operai sedevano a mangiare all’ombra di un albero isolato. Le
rotaie luccicavano al sole e faceva un caldo infernale. “P’aviri n‘pocu di ombra, non c’è di megghiu cà a galleria”,
dissero ridendo. Era un invito a tornarmene da dov’ero venuto, decifrai. Ma un
invito benevolo, scherzoso -
Seguii il loro
consiglio e ritornai dentro, sperando non ci fosse quel dannato cane da pastore
ad aspettarmi. Non c’era. Decisi che il mio viaggio poteva considerarsi concluso,
e iniziai a ripercorrere tutta la lunga strada fatta all’andata. Il paesaggio
era tornato quello di prima, con nuvole quasi temporalesche, stavolta, e la
solita vegetazione che invade e si appropria delle cose e delle opere
abbandonate da lungo tempo dagli uomini.
Una sola cosa avvenne
di strano, e non fu la sola. Presso un posto di chiamata telefonico,
consistente in una garitta nei pressi della stazione in rovina dove mi ero
accampato, c’era un telefono intatto, di bachelite nera, che proprio in quel
momento aveva preso a suonare -
Risposi.
-
“Sono io, non mi riconosci ? Le pere le hai
mangiate ?”
-
“Ma chi sei, la ragazza che ho incontrato prima
?”
- “Si, certo, scemo. Chi vuoi che sia ? Sono la
figlia di Valerio.”, rise allegramente.
-
“Valerio? Ma Valerio non vive a Palermo ?”
La telefonata si interruppe e
lasciò il posto a una serie di scariche di elettricità statica.
Dato che ormai ero nel pieno
delle assurdità, feci una cosa assurda: da quel telefono chiamai direttamente Valerio.
-
“Valerio, sei tu ? Ma non ci siamo visti l’altro
ieri sera a Palermo ? Cosa ci fai qui in mezzo al nulla ?”
-
“Cosa ci faccio ? io vivo da queste parti da
sempre, dirigo i lavori ferroviari in tutta la Sicilia interna.”
-
“Quindi anche Borgo 29…”
-
“Certo, Borgo 29 è l’appalto più vecchio, risale
al …”
… … …
interruzione del segnale
… … …
-
“ma come hai fatto a scrive…”
-
“… su Internet ?”
-
… … …
-
“ma in che ann…?”
-
… … …
-
“Posso ritornare a trov…rti, Valerio ?”
suono di telefono libero
… … …
elettricità statica
… … …
voce chiara e forte:
-
“non è ancora il momento, giovane amico mio, anzi non
puoi proprio neanche volendo - comunque grazie della visita, è stato un
piacere”
-
“Intendi dire la visita a Palermo, no ?”,
replicai.
Il telefono tacque
definitivamente.
Provai a ritornare indietro, a
rientrare in galleria, ma davanti all’ingresso stazionava un branco di cani.
Allarmati, avevano già cominciato ad abbaiare furiosamente. Mi avrebbero
mangiato vivo, se mi fossi avvicinato: uomo avvisato…
L’apparecchio squillò di nuovo,
surreale e sinistro. Decisi di non rispondere, stavolta.
Feci dietro-front definitivamente,
mentre le prime gocce di pioggia cadevano sulle colline verdi di questa remota
parte della Sicilia, malinconica e bellissima. Le pere che avevo in tasca erano
intatte e possedevano un intenso profumo. Ne mangiai una e proseguii verso l’auto,
sotto il temporale. Ero ormai bagnato fradicio e mi accorsi che avevo sbagliato
l’esposizione di tutte le foto, che erano inutilizzabili.
Ma chissà perché, ridevo.