venerdì 24 luglio 2015

Borgo 29. ( il racconto dell'estate )




tempo stimato di lettura: 8 minuti



Era un progetto che rimuginavo da tanto tempo, quello di percorrere a piedi una delle tante ferrovie abbandonate disperse nel nulla dell’entroterra siciliano. Questa era stata costruita agli inizi del 1900, e lasciata in disuso quarant’anni dopo, alla vigilia della guerra. Da allora nessuno se n’era più curato, meno che mai in tempi di crisi come quelli odierni. Rotaie e traversine erano state smantellate da tempo; rimaneva solo il vecchio tracciato, la cosiddetta “area di sedime”.


Di quel tratto ferroviario avevo attinto con avidità notizie dettagliate da un sito web curato da un settantenne di Palermo che minuziosamente, metodicamente e con infinita pazienza e passione ne aveva ricostruito la storia, il tracciato e perfino l’aveva per qualche breve tratto percorsa lui stesso a piedi, documentandola con fotografie e didascalie. Valerio, si chiamava. Lo avevo contattato per email, poi ci incontrammo di persona nella sua città giusto il giorno prima della mia “avventura”, ed era stato felice di conoscermi e lusingato di apprendere che mi sarei recato sul posto, per quell’escursione di due giorni.


Disse un po’ rammaricandosi che il suo sito web riceveva pochissime visite, trattandosi di un argomento ignorato dai più: il genere “abandoned”. Io invece ero affascinato da una vita da borghi e ferrovie abbandonate, erano il mio “pane” da sempre e non vedevo l’ora di percorrere a piedi questa tratta.


Dopo un lungo viaggio in auto, raggiunsi il centro della Sicilia. Era ottobre e la luce era splendida, perfetta per le foto. L’autunno stentava ad affermarsi, ma l’aria era fresca e le giornate visibilmente più corte. Abbandonai l’auto presso una stazione di servizio e mi incamminai a piedi con uno zaino molto pesante, contenente anche il necessario per accamparmi: mi aspettavano quasi trenta chilometri di strada lungo il sedime ferroviario non facilmente praticabile.  Sapevo che sterpaglie, arbusti, crolli e smottamenti, tratti franati e interruzioni che si erano succeduti in settant’anni non mi avrebbero reso la vita facile -


Portavo con me copia delle pagine web di Valerio, più mappe e sovrapposizioni cartografiche reperite su Internet. Intercettai subito l’ex ferrovia grazie alle dritte di Valerio e a una fila di pali telefonici di legno ormai privi di cavo che si susseguivano all’infinito, paralleli alla linea. Guardai l’ora, erano le 9 del mattino, e iniziai a camminare. Come sempre, ci volle parecchio tempo perché la schiena si abituasse al fardello – e notai strada facendo, che il paesaggio era piuttosto monotono, non era come mi aspettavo. Dopo una sosta per mangiare qualcosa, indugiai un’ora nei pressi di un viadotto a tre luci semi-crollato e proseguii per tutto il pomeriggio, finendo per accamparmi nei pressi di una piccola stazione invasa dai rovi, anch’essa ovviamente in disuso. Per quel primo giorno era abbastanza, avevo percorso più di venti chilometri.


Il mattino seguente ripresi un po’ di malavoglia il cammino lungo l’ex ferrovia. Il tracciato adesso era in leggera salita e compiva delle lunghe curve ad “S” attraverso colline spoglie; poi iniziarono le gallerie. La prima di queste aveva l’ingresso sbarrato da un cancello metallico, e dovetti perdere mezz’ora per aggirarla, tra rovi e altri ostacoli, imprecando. La seconda era aperta e percorribile – dall’ingresso scorgevo la luce dell’uscita – e in effetti finii per percorrerla piuttosto velocemente, anzi a gambe levate, dato che un enorme cane bianco da pastore mi aveva avvistato a cento metri di distanza e si era preso la briga di inseguirmi.


All’uscita della galleria, ancora sconvolto per la corsa e con l’adrenalina in corpo per la paura, impiegai un po’ ad accorgermi che il paesaggio era cambiato: il tracciato ferroviario esisteva ed era anzi quasi completo – degli operai stavano fissando con grossi bulloni le traversine di legno ai binari; i pali telefonici sembravano meno vecchi, nuovi addirittura, ed erano provvisti di cavo; ma era il cielo che aveva qualcosa di strano: la luce non poteva essere quella di fine ottobre, era una luce abbacinante, estiva. Anche le colline tutt’attorno erano gialle, di seminativo alto e maturo - 


Avanzai e salutai gli uomini al lavoro, che risposero con un cenno della testa. Poco lontano giaceva un minuscolo borgo sulla sommità di una collina ventosa – doveva essere il villaggio destinato ad ospitare gli operai nel corso dei lavori. Lo raggiunsi e ci trovai solo donne, affaccendate in vari mestieri. Avevano vestiti stranamente pesanti e di foggia vecchia, polverosa. Il villaggio aveva una disposizione a croce, con una piazzetta centrale in terra battuta. Una ragazza mi salutò e mi chiese da dove venivo –


-          “Vengo dalla galleria, cioè ho percorso a piedi tutta l’ex ferrovia”, le risposi.


-          “Non sei il primo, alcuni di quelli che escono da quella galleria, finiscono per rimanere qui”.

-          “Qui dove ? dove siamo esattamente ?”

-          “Siamo a Borgo 29. Si chiama così perché la ferrovia è lunga 29 chilometri, e questo è l’ultimo”.

-          “Ma la ferrovia non è in disuso da più di settant’anni ? Non è un’ex ferrovia?”

-          “Ex ? che vuol dire ‘ex’ ?”

-          “Vuol dire che è una ferrovia abbandonata”, spiegai -


Mi guardò perplessa, aveva gli occhi chiari, allegri, ma nelle labbra, sottili, c’era un accenno di tristezza, come quella nota appena accennata di avvizzito che si riscontra nei fiori appena un attimo dopo che sono stati raccolti. Ci guardammo negli occhi senza dire più niente, poi una donna in lontananza la chiamò, intimandole di far presto.


Prima di sparire mi regalò due piccole pere verdi, che io, non sapendo cosa farne, lì sul momento cacciai in tasca. Me ne andai anch’io perché non c’era molto da fare o da vedere, a Borgo 29, e le altre donne del villaggio mi fissavano con curiosità ma sgusciavano via se appena accennavo un saluto. Peccato, mi dissi, almeno mi avesse detto il suo nome, quella ragazza -


Era ormai mezzogiorno e gli operai sedevano a mangiare all’ombra di un albero isolato. Le rotaie luccicavano al sole e faceva un caldo infernale. “P’aviri n‘pocu di ombra, non c’è di megghiu cà a galleria”, dissero ridendo. Era un invito a tornarmene da dov’ero venuto, decifrai. Ma un invito benevolo, scherzoso -


Seguii il loro consiglio e ritornai dentro, sperando non ci fosse quel dannato cane da pastore ad aspettarmi. Non c’era. Decisi che il mio viaggio poteva considerarsi concluso, e iniziai a ripercorrere tutta la lunga strada fatta all’andata. Il paesaggio era tornato quello di prima, con nuvole quasi temporalesche, stavolta, e la solita vegetazione che invade e si appropria delle cose e delle opere abbandonate da lungo tempo dagli uomini.


Una sola cosa avvenne di strano, e non fu la sola. Presso un posto di chiamata telefonico, consistente in una garitta nei pressi della stazione in rovina dove mi ero accampato, c’era un telefono intatto, di bachelite nera, che proprio in quel momento aveva preso a suonare -


Risposi.


-          Sono io, non mi riconosci ? Le pere le hai mangiate ?”

-          “Ma chi sei, la ragazza che ho incontrato prima ?”

-     “Si, certo, scemo. Chi vuoi che sia ? Sono la figlia di Valerio.”, rise allegramente.

-          “Valerio? Ma Valerio non vive a Palermo ?”


La telefonata si interruppe e lasciò il posto a una serie di scariche di elettricità statica.


Dato che ormai ero nel pieno delle assurdità, feci una cosa assurda: da quel telefono chiamai direttamente Valerio.


-          “Valerio, sei tu ? Ma non ci siamo visti l’altro ieri sera a Palermo ? Cosa ci fai qui in mezzo al nulla ?”

-          “Cosa ci faccio ? io vivo da queste parti da sempre, dirigo i lavori ferroviari in tutta la Sicilia interna.”

-          “Quindi anche Borgo 29…”

-          “Certo, Borgo 29 è l’appalto più vecchio, risale al …”


… … …


interruzione del segnale


… … …


-          “ma come hai fatto a scrive…”


-          “… su Internet ?”


-          … … …


-          “ma in che ann…?”


-          …  … …


-          “Posso ritornare a trov…rti, Valerio ?”


suono di telefono libero


… … …


elettricità statica


… … …


voce chiara e forte:


-          “non è ancora il momento, giovane amico mio, anzi non puoi proprio neanche volendo - comunque grazie della visita, è stato un piacere”

-          “Intendi dire la visita a Palermo, no ?”, replicai.


Il telefono tacque definitivamente.


Provai a ritornare indietro, a rientrare in galleria, ma davanti all’ingresso stazionava un branco di cani. Allarmati, avevano già cominciato ad abbaiare furiosamente. Mi avrebbero mangiato vivo, se mi fossi avvicinato: uomo avvisato…


L’apparecchio squillò di nuovo, surreale e sinistro. Decisi di non rispondere, stavolta.


Feci dietro-front definitivamente, mentre le prime gocce di pioggia cadevano sulle colline verdi di questa remota parte della Sicilia, malinconica e bellissima. Le pere che avevo in tasca erano intatte e possedevano un intenso profumo. Ne mangiai una e proseguii verso l’auto, sotto il temporale. Ero ormai bagnato fradicio e mi accorsi che avevo sbagliato l’esposizione di tutte le foto, che erano inutilizzabili.


Ma chissà perché, ridevo.














 

Nessun commento:

Posta un commento