domenica 26 febbraio 2012

Il periplo della Calabria, 1990

"mi bastavano una pizza Margherita e una birra per essere felice"


Il mio primo viaggio completo in bicicletta si svolse ventidue anni fa in Calabria, nel 1990. Il periplo della costa fu di circa 800 chilometri e durò due settimane. Avevo appena diciotto anni e con grande emozione presi il traghetto da Messina per Reggio e approdai sul “continente”; mi diressi verso la costa ionica e iniziai a pedalare per centinaia di chilometri con il mare per compagno.

Ricordo lunghissimi tratti di mare deserti, e canneti e ferrovia e piccoli alberghi economici isolati. Giunsi a Monasterace, dove le rovine di un tempio greco giacevano a pochi passi dal mare. Lo Jonio era grigio e agitato e il cielo minacciava pioggia – c’erano forti raffiche di vento. Erano gli ultimi giorni di agosto e la costa si stava spopolando, i turisti stavano andando via – mi rifugiai in un campeggio dove gli unici ospiti eravamo io e un napoletano un po’ eccentrico che scriveva poesie. Finito il temporale proseguii lungo la costa. Il paesaggio si movimentò verso Copanello, poi tornò di nuovo pianeggiante. Ogni tanto mi fermavo a raccogliere e mangiare fichi dagli alberi che crescevano a lato della strada – i camionisti mi salutavano con il clacson. A Cirò Marina incontrai una famiglia di napoletani che mi invitarono a cena – forse vedendomi da solo, sudato e con la bici carica volevano fare un’opera di bene. Più avanti ancora giaceva Sibari, con la sua pineta sul mare – ero quasi al giro di boa del viaggio. A bici scarica esplorai l’entroterra e raggiunsi Cerchiara di Calabria, un paese di pietra a 650 metri d’altezza con un vecchio castello in rovina; comprai l’ennesimo panino presso un alimentari al cui interno c’era un cartello metallico che diceva “Non sputate per terra – la Tubercolosi si diffonde con lo sputo”. Rispettai l'ordinanza e non sputai.

Cerchiara di Calabria, m.650
 
Morano Calabro


Avevo percorso la costa dei Greci, ora dovevo raggiungere quella tirrenica. Per farlo feci rotta verso ovest, superando le montagne della Catena Costiera. Ci impiegai un giorno, attraversai diverse lunghe gallerie che mi resero ansioso e quando uscii dall’ultima e vidi il Tirreno color verde smeraldo urlai di felicità. Viaggiare in bici è sempre così, un’alternanza di ansia, di paure, di fatiche e di vittorie che ti ripagano di tutto in pochi secondi. Ricordo che mi fermai presso un minuscolo paese, Gizzeria Lido. Le case erano quasi tutte incomplete, regnava un’aria di abbandono e povertà diffusa – era il primo pomeriggio e c’era agitazione, polizia e ambulanze: mi dissero che avevano appena accoltellato qualcuno. Trovai un campeggio non recintato che somigliava a un campo nomadi. Il proprietario oziava su un’amaca con una bottiglia in mano, era vestito di stracci e sembrava un barbone. Mi disse di stare tranquillo, che potevo lasciare il portafogli incustodito - nessuno l’avrebbe toccato. La sera mi recai in paese in una pizzeria scalcinata dove stava cenando una famiglia numerosa. I bambini si accanivano sui piatti come se quella fosse stata la prima volta che vedevano cibo. La notte saltai per aria perché sentii calpestii e poi un raspare sul telo della tenda, di sicuro era un cane. Il mattino dopo mi recai alla “direzione”, una baracca pericolante in blocchi di calcestruzzo e tetto di Eternit, dove le figlie del proprietario barbone non mi fecero pagare nulla e mi augurarono buon proseguimento. Spesso i poveri sono più generosi dei milionari, pensai.
La costa tirrenica aveva un’orografia più complessa, con numerose salite. Non avevo nessuna fretta e le affrontavo con calma. Dopo Vibo Valentia la strada perdeva quota con numerosi tornanti in un’ampia vallata verde costellata da ulivi secolari. A Mileto un’anziana contadina vestita di nero mi offrì della frutta. Dei giovani mi lanciarono da un’auto un insulto che non capii ma che ricambiai – forse neanche loro capirono, perché non si fermarono. Mi accampai presso Gioia Tauro, dove il paesaggio era stato stravolto per far sorgere un grande polo metallurgico; ettari di agrumeti erano stati spianati dalle ruspe. Spesso nei campeggi ero l’unico cliente, e questo non mi dispiaceva. Guardavo il sole spegnersi sul mare e scribacchiavo il diario di viaggio. Dormivo sonni beati in un sacco a pelo sintetico leggero, dentro una tendina da 50 mila lire. La sera mi bastavano una pizza Margherita e una birra per essere felice, oltre al conteggio compiaciuto dei chilometri percorsi. Attraversai in sequenza Palmi, Bagnara Calabra, Scilla; a volte la Statale correva a picco sul mare, che rumoreggiava in fondo. Infine rividi di nuovo le case gialle di Reggio, dove l’anello si concludeva. La Sicilia giaceva dall’altra parte dello Stretto, in una splendida giornata luminosa di settembre. Presi il traghetto per Messina, dove i miei mi aspettavano: loro erano contenti, ma io più di loro. Avevo concluso un viaggio forse insignificante, ma che all’epoca costituì per me, sbarbatello diciottenne, una grande e memorabile avventura. 


Sul traghetto per Messina, settembre 1990.







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